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Nuovo tripudio di applausi per il Rigoletto firmato Gilbert Deflo

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Nuovo tripudio di applausi per il Rigoletto firmato Gilbert Deflo
Fermata Spettacolo

Il genio verdiano ha trovato nella sua parabola creativa davvero molti capolavori in cui esprimersi senza riserve: uno di questi, senza alcun dubbio, è “Rigoletto”.

A dire il vero non sempre piace a tutti quest’opera in cui commedia e tragedia si fondono e confondono, in cui il carnefice non solo non viene punito ma addirittura salvato dalla sua vittima: a quale morale introduce la storia del gobbo di Mantova? Perché la maledizione, così centrale e fondamentale, ricade sul buffone di corte e non sul vizioso Duca? Ma è forse l’irrisolutezza di questi interrogativi, unita ad una musica celeberrima, ad alimentare il fascino di questa famosa opera del 1851.

La storia della musica ci insegna che Rigoletto è in realtà un titolo di ripiego, dovendo Verdi e il suo librettista Piave sottostare ai dettami della censura austroungarica. Dai lussi della corte di Francia ai tempi di Francesco I (immortalati da Victor Hugo ne “Le Roi s’amuse”) ci si ritrova nel Ducato di Mantova, tra i festini e i bagordi dei cortigiani di Vincenzo Gonzaga. Una riambientazione felice a dire il vero, che riecheggia i fasti decadenti di una ricca e colta nobiltà di provincia, in una città fortificata cinta tra i suggestivi laghi paludosi del Mincio.

La musica di Giuseppe Verdi è un miracolo di evocazioni, una misura sapiente di armonie e di colori, secondo un ritmo sempre sostenuto, come una danza infernale dalla quale è impossibile svincolarsi. Si apre con una festa “Rigoletto” e con l’aria del Duca che con i suoi guizzi frizzanti e le parole così sfrontate ci ricorda intuitivamente il “Don Giovanni”. È la suggestione del dissoluto andaluso, e il quasi perfetto parallelismo tra tutti i personaggi, che ci fa preattendere lo sviluppo della trama, poi via via smentita.

Rigoletto è come Leporello, sciocco fedele del padrone libertino, complice incauto delle sue bravate ai danni di giovani indifese. Il conte Monterone è il Commendatore/convitato di pietra, che pretende giusta vendetta per la figlia vigliaccamente disonorata, e proprio la sua maledizione contro il signore di Mantova e il suo buffone è il cupo anatema che dà il la (o qui, meglio, si perdoni la battuta, il do) all’azione drammatica.

Il Duca, come Don Giovanni, imperterrito e impassibile persiste nella sua cinica e individuale giostra contro la morale, forte della posizione sociale e dell’incolumità che il titolo gli consente, mentre Rigoletto sveste fin da subito i panni del carattere da baritono buffo e indossa quelli dell’uomo a tutto tondo. Non più gli espedienti semieroici del libertino irriverente, ma i tormenti di un padre, di un servo, di un vinto che anela vendetta diventano il centro narrativo di questa ennesima storia di privilegi di classe.

Sì, perché Rigoletto è anche un’opera intimamente politica, una denuncia drammatica del privilegio e della prepotenza. Se Don Giovanni poteva vantare il merito di lottare il buio della ragione con il lume della libertà, il Duca di Mantova è un consapevole sfruttatore della debolezza delle proprie vittime: egli seduce a bella posta le figlie dei cortigiani e dei sudditi, con ogni espediente, ma con la certezza della sua forza. Don Giovanni aveva da affrontare in duello il Commendatore, il Duca di Mantova si limita a fare condannare a morte il conte Monterone, senza straccio d’onore.

Il signore di Mantova ci disturba, la sua condotta è odiosa, ma la sua voce tenorile ci accarezza, e se “Questa o quella” o “La donna è mobil” ci sembrano il perfetto manifesto della maschilità italiana per eccellenza secondo la tradizione dei Casanova, dei Cagliostro e dei Da Ponte, il duetto con Gilda alla fine del primo atto, l’aria “Parmi veder le lagrime” nel secondo atto e il corteggiamento di Maddalena nel terzo, ci ragguagliano di una personalità più debole e sfaccettata, intensamente e sinceramente concentrata nella seduzione, non solo come un’arte o una tecnica, ma come ragione di sé, propria missione di senso.

A sostenere l’ego ducale i tanti cortigiani, dal cui coro emergono gli insipidi e ipocriti Marullo e Ceprano, un gregge di perditempo e di parassiti. Detestano il Duca, da cui però traggono linfa vitale, temono per le proprie mogli e figlie, ma non perdono occasione di umiliare Monterone e Rigoletto quando perdono le loro sotto le insidie del Duca. La vita è gioco, per chi non ha vere preoccupazioni. Quando credono che il turpe e sfigurato Rigoletto abbia un’amante, decidono di rapirla e coinvolgono a sua insaputa lo stesso buffone: uno scherzo degno di memoria, ma che va troppo oltre. Gilda finirà nella stanza da letto del Duca. “Cortigiani vil razza dannata” dirà loro Rigoletto e li implorerà di salvare l’onore della figlia, che a loro nulla costa dopo essersi burlati di lui, ma egli sa bene come andrà a finire e nemmeno umiliandosi ai piedi di Marullo potrà scongiurare l’inevitabile. Tantopiù che Gilda era già stata scioccamente sedotta dal Duca, nei panni travestiti del povero studente guascone Gualtier Maldè. Non resta che la vendetta, “Sì vendetta, tremenda vendetta”.

Rigoletto, sfortunato più volte, deformato dalla gobba, vedovo inconsolato, è obbligato dalla necessità, ma non senza un certo gusto, a divertire il suo signore e la corte con le smorfie, gli scherzi e la sfrontatezza delle battute mordaci. La maschera da menestrello lo ha corrotto, il suo comodo mestiere di suscitatore di risse e di risate ne ha fatto uno strumento di piacere immorale. Brutto e incattivito, sfortunato e giullaresco, egli è ormai come l’omerico Tersite, deformato dalla ingiusta natura e dalla crudeltà degli uomini, antieroe sociale per eccellenza. La massa dei sudditi, se ce ne fosse stata una, lo avrebbe forse eletto suo Boccanegra.

Fin dall’inizio dell’opera Rigoletto riconosce la propria natura perversa e ammette di conoscere soltanto odio e cattiveria: più volte egli dichiara unica sua oasi di purezza la figlia Gilda, bella, innocua, ingenua. Ora, suo solo scopo, nonostante le implorazioni della giovane fanciulla, è fare giustizia del proprio onore.

Gilda, come ogni donna nella storia del potere maschile sul genere femminile, animata dai più nobili sentimenti è tuttavia sottomessa alla severa protezione del padre e agli inganni deliberati del Duca. La sua sola risoluzione coraggiosa, indipendente e libera, è di immolarsi per il suo amato, incurante dell’insensatezza del gesto, invocando in punto di morte una pace d’animo per il padre Rigoletto che egli, però, non può capire. Le sue note sono solo d’amore, di sogno e di perdono, i fraseggi sempre al limite del belcanto, gli slanci chiari e leggeri, le melodie sempre liriche e quasi mai drammatiche. Un angelo nella tempesta. Nei tanti duetti, terzetti, quartetti, quintetti che rendono celebre l’opera la voce di Gilda emerge sempre come contrappunto di dolcezza e di sentimento, una linea di canto tanto acuta da toccare il cielo, sopra le paludi morali e fisiche della città che la inghiottirà fatalmente.

A chiudere il quadro dei personaggi la coppia di mascalzoni fuorilegge, Sparafucile e Maddalena che, come Re Macbeth e Lady Macbeth, sono l’uno strumento della fatale cattiveria del mondo, l’altra istigatrice peccaminosa di ulteriore intrigo e violenza. Si paragona a Sparafucile Rigoletto, perché evangelicamente ne ferisce più la lingua che la spada, ma invero a Sparafucile il mestiere di sicario non pesa sulla coscienza, crucciata solo di non deludere i clienti e di compiere affari secondo scrupolo professionale. Maddalena, al contrario del fratello, non vende cadaveri ma il proprio corpo, e l’abitudine al tradimento la rende avvezza allo spergiuro: il Duca di Mantova, che forse da molto tempo è stato il solo a rivolgerle i cortesi complimenti con “Bella figlia dell’amore”, la soggioga ai vezzi galanti e la spinge a consigliare il disonore al fratello.

Il masnadiere consegnerà a Rigoletto il corpo di Gilda morente in luogo di quello del Duca, che dai bastioni canticchia la sua beffarda canzonetta, facendosi inconsapevole esecutore della maledizione di Monterone.

Cessata la cupa tempesta, in cui Verdi scomoda la voce muta del coro come un’eco di torme infernali, l’incredulo Rigoletto, sulle acque del Mincio, ancora una volta colpito così duramente da una sorte tanto ingiusta, deve perdonare la figlia e piangere se stesso, per averla coinvolta in una spirale di sangue da cui, forse, era troppo volerla preservare. “Ah la maledizione!”

Eccezionale il cast sul palco del Piermarini. Leo Nucci, oltre ogni aspettativa, rimane alla sua età uno dei migliori Rigoletti di sempre. Nucci ci ricorda il Rigoletto che è in ognuno di noi, con i suoi sguardi accesi e le sue esclamazioni sofferte: la sua voce si sa piegare alla recitazione senza mai scalfire la musica, il suo timbro è in grado di esaltare tanto gli aspetti comici quanto quelli tragici di un personaggio così complesso, forse il più complesso del repertorio baritonale.

Il pubblico si commuove, coinvolto intimamente in un ruolo impersonato così passionalmente e ognuno degli spettatori, più o meno consapevolmente, lascia un pezzo della propria ingenua visione del mondo tra le braccia di Rigoletto, insieme all’ultimo respiro di Gilda. La Scala, nel boato degli applausi, ha chiesto a Nucci il bis sull’aria “Sì vendetta, tremenda vendetta” eccellentemente rieseguito a sipario chiuso al termine del secondo atto.

Angelica e sublime Nadine Sierra, che non smette di stupirci per tecnica, espressività e recitazione. Il suo timbro esprime tutta la fragilità, le emozioni, i turbamenti d’animo di Gilda, donna alla mercé dei caprici di uomini acciecati da se stessi. Impossibile non innamorarsi della sua interpretazione, così fresca e naturale, perfettamente calata nella difficile parte in cui fraseggi articolati e virtuosi si innestano su melodie ariose e aggraziate, accanto ad accenti più cupi e drammatici. Applauditissima e apprezzatissima dal pubblico milanese, Nadine Sierra conferma le sue eccellenti qualità di soprano di livello internazionale.

Chiude il trio protagonista Vittorio Grigolo, un vero e proprio istrione, difficile da ammirare per l’aurea da personaggio che si è scientemente costruito, ma è impossibile non annoverarlo tra i migliori tenori italiani in carriera. La sua frequentazione della Scala lo ha fatto crescere molto, sviluppandone le doti recitative ed espressive e mettendo la voce al servizio dell’opera. Il suo Duca di Mantova possiede la brillantezza e i colori giusti, con trasporto e verve teatrale. La tecnica di Grigolo è impareggiabile e, sebbene ancora alla ricerca del proprio cavallo di battaglia, il suo timbro bene si conforma al ruolo di tenore lirico, pieno e squillante, in grado di spaziare anche sui registri più acuti con leggerezza e chiarezza, ma senza perdere di volume. Grigolo ha fornito davvero ottima prova di sé, ma non è riuscito ad emergere come avrebbe sperato, offuscato dal calore che la sala ha dedicato a Nucci e Sierra.

Un poco sottotono Carlo Colombara, basso poliedrico, nei panni di Sparafucile. Se in Prova Generale Colombara era addirittura inciampato in un passaggio afono, in recita non si è distinto per espressività, volume e tecnica. Colombara si è mantenuto su colori scurissimi, senza aprire il suo timbro ad accenti più cantabili che pure conosce e nei concertati non è riuscito a marcare la potenza della sua voce. Uno Sparafucile fin troppo cavernoso e ombroso, senza la dovuta potenza e solidità. Interpretazione sotto tono, seppur di elevata qualità.

Meglio Annalisa Stroppa, Maddalena, bravissima cantante già altre volte apprezzata, qui forse poco slanciata. La parte poteva suggerire alla Stroppa una maggiore espressività e convinzione, che ci sono sembrate in qualche modo trattenute. La sua tessitura spazia con disinvoltura tra i registri di contralto e di mezzosoprano, in grado di interpretare ruoli leggeri e drammatici. In questa Maddalena la Stroppa non è riuscita a imprimere un’interpretazione decisiva e memorabile, pur offrendo un’altissima esibizione.

Molto bene tutte le parti minori, a partire dal conte Monterone di Giovanni Furlanetto, basso di notevole espressività. La balia di Gilda Giovanna è stata la brava Chiara Isotton, il nobile Marullo Davide Pelissero e il Conte di Ceprano Gianluca Breda.

Molto bene i giovani allievi della Scuola di canto dell’Accademia del Teatro alla Scala, sulla scena accanto a grandi voci, con piglio sicuro e senza sbavature nelle brevi parte assegnate: il nobile Matteo Borsa di Martin Piskorski, la Contessa di Ceprano di Federica Lombardi, il Paggio della Duchessa en travesti di Kristín Sveinsdóttir e l’usciere del Palazzo Ducale Oliver Pϋrckhaue.

La regia di Gilbert Deflo è quella inaugurata alla Scala nel 1994, di gusto tradizionale. I primi due atti ci mostrano in gran splendore lo sfarzo dei palazzi mantovani: il salone interno rievoca con precisione e dovizia gli ori e le decorazioni rinascimentali, ugualmente i bastioni esterni nella scena del rapimento di Gilda, con la grande scalinata e l’espediente del doppio palco sullo sfondo dove si muovono i cortigiani, ambientano la storia con cura e realismo. L’effetto teatrale è di grande riuscita.

Debolissimo il terzo atto, in cui non si risolve la divisione tra interno della locanda di Sparafucile ed esterno, e il palco da palazzo sfarzoso diventa un prato malconcio, con una grezza tavola insensatamente imbandita in mezzo alla strada. Di poco senso la quinta laterale decorata come fosse una porzione dei bastioni, da cui non si capisce se Rigoletto e Gilda debbano essere nascosti o meno alla vista della locanda, alla quale accedono ora passando attraverso alla quinta ora attraversandone la porticina. Di pessimo gusto sul fondo il muraglione di mattoni a finestrone regolari da cui si affaccia Maddalena e dietro al quale sparirà il Duca. Ben riuscito l’effetto pioggia, che se non altro stupisce il pubblico.

Evocativi e realistici i costumi di foggia rinascimentale, in particolare quelli di Rigoletto, ora giullare con cappello a sonagli e scettro di legno ora in blusa scura e tabarro.

Molto bene la direzione del maestro Nicola Luisotti, in linea con le interpretazioni più classiche ed elastico con le esigenze dei cantanti, concedendo pause per gli applausi e un inatteso bis per Leo Nucci.

Ottimo il coro scaligero, tumulto di nobili buontemponi, memorabile nell’aria “Zitti, zitti, muoviamo a vendetta”, giustamente applauditissimo per questa ennesima dimostrazione di impeccabile bravura.

La sala del teatro, sempre affollatissima, ha riconosciuto a questo “vecchio” spettacolo l’ennesimo tripudio di applausi, degno dello straordinario capolavoro verdiano e dei suoi impareggiabili interpreti.

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