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Il fascino classico di My Fair Lady

Il fascino classico di My Fair Lady
Fermata Spettacolo

È la prima volta che il Teatro San Carlo, per l’occasione insieme al Teatro Massimo di Palermo, produce un musical: probabilmente molti puristi storceranno il naso, messi di fronte alla prospettiva che il glorioso teatro d’opera, il più antico d’Europa – e dunque del mondo – attualmente in servizio, possa non solo mettere in scena ma addirittura intraprendere la produzione di una commedia musicale; penso tuttavia se ne debbano fare una ragione: è senz’altro venuto il momento di riconsiderare la storia del teatro in musica comprendendo anche forme, come questa di cui parliamo, che finora ne erano rimaste fuori. Del resto, l’opera in questione non è certamente stata scelta a caso: My Fair Lady è uno dei musical più famosi e più rappresentati al mondo, interpretato nel corso degli anni e nelle varie versioni da attori del calibro di Julie Andrews, Rex Harrison, in Italia da Delia Scala e reso immortale dalla versione cinematografica di George Cukor con Audrey Hepburn.

Scritto da Alan Jay Lerner e musicato da Frederick Loewe nel 1956, deriva dalla commedia Pygmalion che George Bernard Shaw scrisse nel 1913, a sua volta ispirandosi al mito di Pigmalione, il re di Cipro che, disgustato delle donne, modella una statua perfetta – metafora d’un irraggiungibile ideale – e se ne innamora: gli dei avranno pietà di lui e trasformeranno la statua in donna, così i due potranno sposarsi. Un happy end che invece Shaw non volle per il suo Pygmalion – Eliza alla fine sposa il giovane Freddy e Higgins rimane da solo – anche se, a furor di popolo, il commediografo cambiò parzialmente il finale nel 1938, nella trasposizione cinematografica curata da lui stesso, per la regia di Gabriel Pascal, in cui lascia aperta la possibilità di un futuro insieme. Nel musical, invece, il vissero felici e contenti si pone come inevitabile conclusione di una storia sicuramente molto più giocata sui toni della favola che dell’apologo morale, pur se, occorre dire, rimane, questa commedia musicale, molto interessante proprio per la non comune profondità dei temi, rispetto alla simile produzione di quegli anni.

Perché poi, a ben vedere, in questa storia da Cenerentola moderna – spero che lo spirito di GB Shaw non se l’abbia a male – non ci sono fate buone che trasformino zucche in carrozze e ignoranti fioraie in dame dell’high society, Eliza ha l’intelligenza di chiedere la cosa giusta per sé in vista di un miglioramento sociale – un lavoro in un negozio di fiori è il massimo sogno che si possa permettere – e lavorerà duro per questo, meritandosi il cambiamento della propria vita: ciò che traspare, sotto la leggera vernice lucida e sfavillante della fiaba è la battaglia tra i sessi, che si gioca, tra l’altro, in un particolare momento della storia, il trapasso al secolo breve delle grandi rivoluzioni. Incarnazione d’ogni immaginabile egotismo, il professor Higgins è uno strano principe azzurro, annoiato e spaventato dalla vita, che si rifugia nello studio della fonetica che è il suo feticcio, la lente attraverso cui guardare e interpretare il mondo, svalutato perfino dalla madre che non sembra, in verità, apprezzarlo molto, la ragazza non è altro che un trastullo da umiliare grazie alla sua cultura e con cui divertirsi un po’ usando sadici e grotteschi marchingegni che dovrebbero migliorare il suo cockney: insomma, molti ci hanno visto l’immagine dello stesso GB, e credo che non siano andati lontano.

Eliza Doolittle è il suo perfetto contraltare, proletaria che acquisisce, grazie al duro lavoro, coscienza di classe, perpetuando nello scontro ricchi-poveri, di cui, in tutta apparenza, si parla nella pièce, il vero conflitto, che è quello tra i sessi, risultato d’inconciliabili punti di vista che trovano, com’è ovvio, proprio nell’insita e insistita diversità la ragione d’essere dell’appartenenza al proprio sesso. Così, l’emancipazione di Eliza andrà, com’è ovvio, ben oltre il parlar forbito o il vestire con eleganza, la trasformazione inciderà molto profondamente nel suo animo, è una vera Lady, ormai, pronta a sposare il dolce ma vuoto Freddy. Ma nonostante tutto quel che dice GB Shaw nell’epilogo di Pygmalion, per dimostrare che Henry ed Eliza non possono sposarsi, chiamando serissimamente in causa Freud e il complesso di Edipo e mille altre notevoli e gravi ragioni, a volte, occorre ammetterlo, avvengono pure i miracoli, quello che rende My Fair Lady una favola è proprio l’inattendibile ma atteso innamorarsi dei due, la fata compie l’incantesimo della rinuncia a se stessi per far post all’Altro, la trasfigurazione che rimane improbabile ma che è nei desideri di tutti.

Decide, il regista Paul Curran, di rappresentare tutto questo esattamente come lo immaginiamo: se anche non abbiamo mai avuto ventura di vedere in teatro il musical – nella versione in lingua originale che è stata messa in scena al San Carlo, oppure in quella italiana, da Delia Scala a Vittoria Belvedere – abbiamo sicuramente visto il film con Audrey Hepburn e Rex Harrison, passato in televisione molte volte – se fortunatamente non siete abbastanza vecchi per averlo visto al cinema.

Ma, ammesso pure non l’abbiate mai visto in alcun modo, ne avrete sicuramente in mente colori, immagini, atmosfere che sono ormai diventati, in questi sessant’anni, parte del patrimonio comune Dei Nostri Ricordi, le musiche soprattutto – da I Could Have Danced All Night a On the Street Where You Live, da The Rain in Spain a Wouldn’t It Be Loverly, da Ascot Gavotte a With a Little Bit of Luck – sono parte della nostra colonna quotidiana, mai passate di moda. Ci aspettavamo, dunque, noi che pure apprezziamo in teatro le trasposizioni di tempo e di luogo, che in questo caso storia e geografia, suoni e immagini, se non addirittura sapori e odori dei nostri ricordi non venissero alterati, e Paul Curran ha saputo servirci il musical, potremmo dire, su un ricco piatto d’argento, con una messinscena pressoché perfetta nell’ambientazione, nei movimenti scenici – magistrali le grandi scene d’insieme, come l’uscita dal Covent Garden o le corse di Ascot, giocate sul trompe-l’œil di un altrove alluso e nascosto – nella cura maniacale dei particolari, che si avvale delle ricche scene di Gary Mc Cann, dei costumi d’epoca sfarzosi ed elegantissimi di Giusi Giustino, delle sempre appropriate e inappuntabili luci di David Martin Jacques.

Nancy Sullivan sa essere una perfetta Eliza secondo i canoni attesi, dotata di buona presenza scenica e di voce adeguata, ci convince sia nel ruolo della rozza ed ignorante – ma non insensibile – fioraia, sia in quello dell’elegante ed emancipata Lady, sapendo darci la perfetta consapevolezza dell’evoluzione che è avvenuta in lei. Robert Hands riesce, grazie a un minimo cambiamento di espressione, un movimento dello sguardo, un gesto della mano, con l’intero corpo a racchiudere in sé tutto il nondetto di quest’uomo effettivamente egoista, effettivamente insopportabile, ma veramente fragile e spaventato da rapporti umani veri e autentici.

Ottimi anche l’umanissimo Colonnello Pickering di John Conroy, il ben caratterizzato Alfred P. Doolittle di Martyn Ellis, il molto applaudito Freddy di Dominic Tighe, la simpatica burbera Mrs. Higgins di Julie Legrand e tutta l’Ensamble di attori inglesi che, insieme con il Coro e il Corpo di ballo del Teatro San Carlo hanno saputo regalarci questa occasione di grande spettacolo. L’ultima parola è però per l’Orchestra del Teatro, guidata questa volta con la maestria di sempre da Donato Renzetti, che ha fornito una prova di grande professionalità, dimostrando, da un lato, la crescita esponenziale che sta compiendo in questa Stagione, dall’altro che, anche completamente fuori dal solito repertorio operistico, questa compagine può e sa offrire grandi riscontri ed ottime prestazioni.

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