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Concerto Juraj Valčuha: cercando il Novecento mitteleuropeo

Concerto Juraj Valčuha: cercando il Novecento mitteleuropeo
Fermata Spettacolo

Credo che il Concerto in questi giorni in programma qui al Teatro San Carlo di Napoli, al netto di qualche nota di rimpianto colta qua e là, sulla mancata opportunità di rappresentare in forma scenica un’opera come Il castello del Principe Barbablù di Béla Bartók, sarà ricordato, come già l’esecuzione per l’inaugurazione della Stagione, come una splendida occasione, per la Città, di conoscere meglio il Direttore Musicale cui è affidato il suo maggior Teatro: e così il gesto insieme autorevole, preciso ed eloquente di Juraj Valčuha diventa motivo di ulteriore e non scontato interesse, al di là del pur notevole programma e dell’eccezionale valore dei solisti, due professionisti del calibro di Violeta Urmana e Gàbor Bretz.

Béla Bartók (1881-1945) compose Il castello del Principe Barbablù (A kékszakállú herceg vára, op. 11) nel 1911: prima e unica opera del musicista ungherese, su libretto di Béla Balázs, è un atto unico che mette in scena una variante in chiave psicologica ed esistenziale della fiaba di Barbablù e delle sue mogli; presentato ad un concorso bandito dal Ministero per l belle arti di Budapest, venne bocciato perché la Commissione lo giudicò ineseguibile. In effetti la fragilità drammaturgica, da un lato – non esiste praticamente azione, l’unica scena si svolge nel grande e buio atrio del castello su cui si aprono sette porte, due soli personaggi dialoganti – il carattere sperimentale dovuto alla novità della lingua e al rifiuto delle forme operistiche tradizionali, dall’altro – cercando una nuova modalità di rapporto tra inusitato declamato in ungherese e sinfonismo orchestrale, lontano dalle soluzioni dell’opera italiana e wagneriana – lo ponevano su un piano inusuale, piuttosto avveniristico, per l’epoca, ma nel corso del secolo breve proprio queste caratteristiche espressive ed in apparenza bizzarre faranno la fortuna del componimento, giudicato addirittura il Pelléas ungherese: il che, al di là della definizione francamente roboante e inesatta – i suoi colori crudi, che risultano dalla combinazione di fattori timbrici e tematici sono molto lontani, in tutta evidenza, dalle fragilità debussyane – la dice però lunga sulla modernità della sua musica e della sua struttura.

Densa di violenze trattenute, di tensioni che avverti potenti al di sotto dell’eteroclita espressività, nell’alternarsi del buio e della luce, la musica, nell’implacabile e serrata suggestione dell’apertura delle sette porte, segna energiche caratterizzazioni che efficacemente descrivono il percorso dall’oscurità al fulgore, fino alla quinta porta, nell’appassionata narrazione del regno di Barbablù, metafora della terra ungherese, prati di seta, boschi vellutati, lunghi fiumi d’argento, monti oscuri in lontananza e poi di nuovo verso il buio delle tenebre, personificazione della stessa quarta sposa, Judith, simbolicamente identificata con la quarta parte del giorno: è suo il mantello stellato della notte. Così, distingui delizie sbalzate con sicura mano, evocate prontamente dalla bacchetta di Valčuha, pronto a lasciare spazio alla voci: restituisce, il Direttore, le atmosfere misteriose e insanabilmente arcane della partitura, sempre ripartendo dalla pagina musicale, esaltandone il colore sinfonico, a piena giustificazione della definizione di Kodàly dell’opera come drame accompagné d’une symphonie.

D’altra parte, Violeta Urmana sa donare alla sua Judith accenti credibili d’appassionata cantabilità, soprattutto nella prima parte, mentre nella seconda manifesta sospetti e gelosia ricorrendo a frasi nervose, che si frangono e si spezzano nell’incertezza sospesa del dubbio; opposto percorso quello seguito da Gàbor Bretz nel delineare il suo Barbablù, il cui canto ricorre più spesso con autorità e potente gravità al profilo pentatonico del canto popolare ungherese, sapendosi man mano aprire a frasi melodiche decisamene più cantabili, che trovano il loro culmine all’apertura della quinta porta.

La seconda parte del concerto prevedeva la Sinfonia n. 8 in sol maggiore, op. 88 di Antonin Dvoràk (1841-1904), completata dall’autore l’8 novembre 1889 a Praga e lì eseguita per la prima volta, presso l’Associazione Artistica, sotto la sua direzione: aveva quasi cinquant’anni, il musicista boemo e sentiva, probabilmente, arrivata l’ora d’affrancarsi dalla tradizione germanica e da Brahms, che pure l’aveva “scoperto” da giovane e che ne aveva messo in luce il talento eccezionale; partito con l’intenzione di “scrivere un’opera diversa da tutte le altre Sinfonie, con idee personali e lavorate in modo nuovo”, finì per ritrovarsi, cercando una dimensione intima e domestica e popolare all’interno del linguaggio sinfonico tradizionale, lui che non era certo un rivoluzionario, in un percorso di valorizzazione delle varie tradizioni musicali dell’Impero, che a Vienna da un secolo già trovavano accoglienza.

Scherzando potremmo dire che se la ben più famosa e di poco successiva Sinfonia n. 9 porta il sottotitolo Dal nuovo mondo, buon epiteto per l’Ottava potrebbe ben essere dal vecchio mondo, così ricca com’è di ritmi e melodie popolari tradizionali, esprimendo la comunicativa diretta della musicalità slava, fin dall’Allegro con brio che apre la Sinfonia, emozioni suscitate da colori e suoni della natura e dalle feste paesane, per continuare nell’Adagio, dal sentimentale cromatismo – omaggio a Tchaikovsky e, fugacemente, alla marcia funebre dell’Eroica beethoveniana – nell’Allegretto grazioso, dall’inconfondibile ritmo di danza popolare, valzer ovvero omaggio al Brahms delle Danze ungheresi, per chiudersi nella fanfara dell’Allegro ma non troppo che stempera il piglio militaresco nella popolanità della festa che esplode in tutta la sua malinconica allegria.

Juraj Valčuha guida tranquillamente ma implacabilmente l’Orchestra del Teatro San Carlo – che con docilità lo asseconda – in una lettura raffinata ed elegante quanto coloristicamente, per quanto possibile, sgargiante, rappresentando al meglio quel sentire che rinvia ad un universo nativo e schietto di segni e malìe che spontaneamente si traducono nel fluire naturale della musica, conquistando un grado non comune di brillantezza e gradevolezza: il pubblico, non particolarmente folto – ma la sala non era nemmeno vuota, occorre dire – ha comunque tributato un intenso e prolungato applauso al Direttore, che ha voluto condividere l’omaggio con ciascun Settore della sua Orchestra. Alzandomi, alla fine, dalla mia poltrona in platea, ho potuto ascoltare un commento, da parte di un giovanissimo spettatore, intervenuto, con tutta evidenza, per la prima volta, ad un Concerto di questo spessore: “Non avrei mai creduto che questa musica potesse piacermi tanto”. Ecco, se al Direttore Valčuha giungesse questo commento, credo potrebbe ritenersi, al di là d’ogni meritatissimo elogio, uomo in pace con se stesso e con il mondo.

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