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L’astratta britannica violenza de Il servo

L’astratta Britannica Violenza de Il servo
Fermata Spettacolo

Quando in sala le luci si abbassano, si apre il sipario: la prima cosa che percepiamo, a scena ancora buia, è una musica eseguita a volume molto alto, poi, dopo pochi istanti, una luce violenta e bianca illumina, al centro, una sorta di scatola scenica, delimitata su tre lati da pareti; anche in alto e sul davanti, la stanza che si viene a disegnare è idealmente chiusa da una traversa che segna l’astratto limite d’una quarta parete. Sul fondo, una grande finestra Tudor dà su un supposto esterno indefinito e opaco, al di sotto di essa l’atmosfera british è confermata e completata da un divano Chesterfield a tre posti, nero, mentre un tavolino bar sulla destra, una abat jour classica sulla sinistra confermano la perfetta simmetria dell’insieme, sottolineata da due ampi spazi oscuri ai due lati della stanza centrale.

Un uomo, immobile, giace riverso supino sul divano, apparentemente incosciente, mentre un altro, in piedi, di spalle, al centro della scena, lentissimamente (quasi un cinematografico rallenty), si avvicina sempre più a lui, in una specie di studiata e surreale marcia slow-motion, finché, alla fine, il sipario si chiude per poi riaprirsi e dar inizio alla pièce, realizzando così una sorta d’ouverture che in qualche modo dovrebbe dar senso al dramma e, al tempo stesso, riassumerne i dati essenziali: per questo ho preferito dettagliatamente descriverlo, perché magari alla fine, chiudendo un cerchio ideale, torneremo sui (possibili e plausibili) significati e rimandi di questo prologo.

Da quanto detto finora, tuttavia, è facile comprendere come la cifra scelta per la rappresentazione de Il servo, qui al Teatro Mercadante di Napoli, da parte dei registi Pierpaolo Sepe e Andrea Renzi, oscilli continuamente, per scoprirsi fino alla fine volutamente irrisolta, tra l’apparenza realistica, ancorata agli oggetti, alle tangibili parvenze di una quotidianità rassicurante e, sull’altro versante, proiezione mentale dei personaggi, che vivono ciascuno i propri anancasmi e le proprie nevrosi fortuitamente speculari e in precario contrappeso, attraverso improvvise epifanie che però si traducono in prudenziali metaforiche espressioni, nutrendosi di rapporti di classe gestiti con violenza rabbiosa quanto silente e contenuta, deviata, (re)incanalata entro un’obliqua e inquieta celebrazione metateatrale che trova nella scatola scenica prima descritta il suo fulcro e che si serve pure, sul limitare del boccascena, del gioco di luci che riduce le presenze degli attori, quando necessario, a mere silhouette.

Scritta da Robin Maugham, nipote del ben più famoso Somerset, la pièce, da cui fu tratto un ben più famoso film di Losey del 1963, narra un apologo morale di fatto continuamente in bilico tra sostanza rivoluzionaria e astrazione archetipica, pur se è sempre piuttosto complicato dirimere in ogni momento ove sia il bene e il male, inestricabilmente fusi, quasi sempre, nell’irriducibile relativismo frutto della nostra modernità.

Così Tony (Andrea Renzi), rampollo indolente tornato dall’Africa a Londra – la città è presente, come detto, attraverso uno spazio scenico ipersemiotizzato – dichiaratamente non vuole “occuparsi di nulla”, cerca qualcuno che, come la tata della sua infanzia, provveda “ad ogni bisogno”, è indotto dalla sua stessa indolenza e dal suo “classismo” – qualunque cosa possa significare nella nostra contemporaneità questa parola – a cercare non già un domestico, un cameriere, un maggiordomo, ma esattamente un “servo”, connotando fortemente, dunque, di forte significato semiotico anche questa sua esigenza. D’altra parte si comprende subito come il giovanotto, troppo indolente per lavorare – è sicuramente ricco, probabilmente usufruisce di qualche cospicua rendita – troppo amante della vita comoda per rinunciarci ma troppo rinunciatario per lottare e procurarsela da sé, troppo abitudinario perfino per sposare la fidanzata Sally (Emilia Scarpati Fanetti) ed affrontare così le responsabilità defatiganti della vita a due, possa cadere facile preda dell’infaticabile e perfetto Barrett (Lino Musella), servo devotamente sottomesso che si prende cura dell’ozioso padrone lentamente ma inesorabilmente procedendo ad una vera e propria presa di possesso della casa, metafora ormai della vita intera di Tony, articolata intorno al nucleo centrale della stanza con la finestra: i due spazi oscuri laterali ospitano pedane mobili con il letto, da una parte, tavolo e sedie dall’altro, territori e ambienti domestici che diventano spazi dell’anima da conquistare, colonizzare, infestare, eludendo gli avvertimenti della fidanzata e dell’amico Richard (Tony Laudadio) e grazie anche alla complicità delle cugine/fidanzate Vera e Mabel (Maria Laila Fernandez).

Il rapporto tra i due, inizialmente rigidamente impostato sul rispetto pedissequo dei ruoli, gradatamente s’incrina, il servus si fa dominus rendendo l’altro ostaggio del suo sottile gioco di seduzione, smascherando debolezze e passività, attraverso il sesso, in un gioco di ambiguità che compensa la rimossa tensione omoerotica riproducendola e moltiplicandola nel rapporto eteroerotico. Finirà come deve finire, anche se è bene sottolineare come il gioco del servo alla fine sembri fine a se stesso, non agendo Barrett né per migliorare realmente la propria condizione sociale – non “sostituisce” realmente il padrone in società, anzi piuttosto lo coinvolge nei suoi innocui passatempi, come le parole crociate del Times – né per estorcergli denaro o accedere al suo patrimonio e nemmeno per rubargli la donna. Anzi.

Egli sembra agire solo ed esclusivamente in nome del filosofico assunto che sia possibile sovvertire l’ordine costituito, capovolgendo ruoli sociali cristallizzati nel tempo, rivelando, in fondo, in questo, il carattere astratto e simbolico del dramma, ben riassunto dal prologo, che non è altro che la rappresentazione, in chiave visiva e onirica, del procedere dell’azione del servo verso (o contro, in una visione dialetticamente hegeliana) l’addormentato padrone, mentre assordante risuona la Musica per il funerale della Regina Maria di Henry Purcell, che fu la prima marcia funebre della storia. Impossibile dimenticare che questa musica, elettronicamente rielaborata da Walter Carlos, faceva da sottofondo non casuale al folgorante inizio di Arancia meccanica, la famosa scena del Korova Milk Bar, nel bianco accecante – come le luci di questa ouverture – del latte mescalinico e delle statue di donne nude: storie, ambedue, in fondo, nella loro profonda diversità, a pensarci, di ordinaria, seducente, simbolica, britannica, astratta violenza.

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Fermata Spettacolo



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