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Die Fledermaus al di là del principio di piacere

Die Fledermaus al di là del principio di piacere
Fermata Spettacolo

Quando nel 1875 Johann Strauss figlio cominciò a musicare Il Pipistrello, Die Fledermaus, in questi giorni rappresentato qui a Bari, al Teatro Petruzzelli, certo nessuno poteva immaginare che sarebbe diventata addirittura la quintessenza di uno stile, determinando perfino un’epoca, quella dell’operetta viennese, ma senz’altro trascendendo quei tempi e quei modi, fino ad essere ancor oggi messo in scena con enorme successo, ad ogni Capodanno, nella Vienna del nostro contemporaneo, al Wiener Volksoper, tempio del teatro leggero di quella città, in contrapposizione non stridente al maggiore e più serioso Staatsoper. Perché, come diceva Felix von Weingartner, non ultimo epigono di quella scuola di grandi direttori d’orchestra della Gran Vienna, da Mahler a Böhm, da Kleiber a Karajan, die Fledermaus ist nicht die beste Operette, sei ist Operette, il Pipistrello è sinonimo, cioè, dell’Operetta stessa, più che miglior operetta: frutto del genio di un musicista dedito fino all’età di quasi cinquant’anni, con enorme successo, alla creazione di valzer e polke e solo tardivamente convertito, per una sostanziale sfiducia nelle proprie capacità drammaturgie, al teatro in musica; se ciò è successo è perché Die Fledermaus esprime in massimo grado la quintessenza dello spirito viennese che poi è possibile, in qualche modo, in virtù d’imprevedibili e sorprendenti cortocircuiti che attraversano la storia, ritrovare singolarmente simile in noi contemporanei, che abitiamo l’oggi come i barbari di Baricco – come in “una terra saccheggiata da predatori senza cultura né storia” – e che ben ci ritroviamo nel coro degli ospiti della favolosa Souper dell’equivoco Principe Orflofsky ad esclamare es heisst ja her das Losungswort: Amüs’ment, Amüs’ment!senza dubbio la parola d’ordine qui è: divertimento, divertimento! – salvo poi provare – come sempre ascoltando un valzer o una polka – un sottile senso di malinconia e tristezza, presagio oscuro e vagamente ansioso, intravedendo, al di là del principio di piacere, uno spazio e un tempo silenzioso e oscuro, Thanatos l’oscuro contrapposto ad Eros luminoso: meglio occultare, coprire, l’orror vacui e il senso di nausea con un principio anarchico e imprevedibile, sfuggente come le bollicine del Re Champagne, svolazzante senza posa come il volo incerto del Fledermaus, che ci consenta, pur nella finzione di un divertimento dovuto all’alcol, a una maschera indossata con leggerezza, a una piccola innocente bugia, di riuscire, nonostante tutto, a goder della vita.

L’allestimento in scena al Petruzzelli porta la firma di Daniel Benoin, regista e light designer che trasporta la vicenda a Trieste nel 1866, nell’inverno che seguì la Terza guerra d’indipendenza: nel 2016 fu presentato per la prima volta nel maggior Teatro della città giuliana, suscitando più d’una polemica, dovuta soprattutto al fatto che la commistione d’italiano e tedesco nelle parti recitate (quelle cantate sono tutte rigorosamente in tedesco) poteva far pensare, in effetti, vista la decisione del regista circa la datazione della messa in scena, ad un riferimento alle politiche di germanizzazione e slavizzazione decise in quei giorni ormai lontani dal Consiglio della Corona imperiale proprio sulle regioni italiane ancora facenti parte dell’Impero, prima tra tutte, naturalmente, la città di Trieste. Una realtà storica dolorosa per la città che non ha visto di buon occhio, con tutta evidenza, ciò che è sembrata una banalizzazione del suo retaggio culturale e linguistico.

Messa in scena a Bari, depurata quindi da questo penoso e pesante riferimento storico, la vicenda e la sua modalità di rappresentazione riacquistano la consueta e necessaria leggerezza: così, al di là della gran vetrata di fondo del salone-serra della casa di Eisenstein del primo atto, intravedi ancora gli edifici di Piazza Unità d’Italia, col Palazzo del Municipio e la sua gran torre centrale – il Palazzo Cheba dei triestini – a far da scenografico sipario sullo sfondo; e poi la prigione del terzo atto affaccia ancora sul mar di Trieste, dal Molo Audace da cui guardi in lontananza Miramare, ma tutto è come sterilizzato, l’ambientazione passa di nuovo in second’ordine, riavvicinandosi a quanto scritto sul libretto, che indica lo svolgimento dell’azione “in un luogo termale, nei pressi di una grande città”.

Il multilinguismo, poi, riacquista il suo valore di precipua e puntuale rappresentazione della società imperiale dell’epoca e della sua identità fortemente multiculturale, con l’uso soverchio ed esorbitante dei forestierismi, così presenti nel testo, dai francesismi, agli anglicismi, agli italianismi, che addirittura sfociano nella caricatura linguistica – un esempio per tutti la nenia filastrocca dell’avvocato Blind (Rekurrieren, appellieren, reklamieren,/Revidieren, rezipieren, subvertieren…) con l’elenco infinito delle rime in -ieren – e che da sola dà un’idea dell’estrema libertà che caratterizza l’operetta. Libertà che il regista riesce a trasfondere nelle sue scelte, anche sul piano della costruzione delle scene.

Così, se la prigione del terzo atto assomiglia del tutto a una voliera, con le sue gabbie esageratamente e sproporzionatamente sbilanciate verso l’alto, incarnazione fin troppo (su)realistica della voliera-galera evocata dal direttore del carcere, Frank, venuto ad arrestare Eisenstein (Mein schönes, großes Vogelhaus,/Es ist ganz nahe hier./Viel Vögel flattern ein und aus,/Bekommen Freiquartier.La mia grande e bella voliera/è a due passi di qui!/Molti uccelli vanno e vengono/e vi trovano alloggio), l’ambientazione del primo atto le fa da pendant, facendo rassomigliare in tutto e per tutto il salotto della ricca casa borghese ad una gabbia serra con tanto di animali impagliati, un pezzo d’Africa in casa, si direbbe, con la giraffa, il leone, lo struzzo all’ombra di sparute palme, sogno stralunato e irrazionale che denota la piena anarchia che regna in questo mondo; fuori, mentre infuria una tempesta di neve, un corteo danzante di maschere si muove nella città, pulcinella e pierrot irrompono alla fine aprendo le grandi porte a vetri: sotto i cappucci maschere esangui di teschi rimandano alle antiche rappresentazioni della danza macabra e all’ironia che soggiace a tale raffigurazione, al suo profondo significato di totale sovvertimento delle gerarchie sociali.

Il secondo atto, il grand Souper dal Principe Orlofsky en travesti, rompe la quarta parete, con i personaggi che man mano arrivano e salgono sul palco dalla platea, regno del travestimento e del fraintendimento, dove nulla è ciò che appare, perché chacun à son goût. In quest’ambiente agiscono i personaggi e i rispettivi interpreti: Marigona Qerkezi è una Rosalinde dal notevolissimo bagaglio tecnico, nonostante la giovane età, e una vocalità piena in tutti i registri: doti che sa pienamente dimostrare nel So muss allein ich bleiben, nell’Uhrenduett e in Klänge der Heimat, cantata dondolandosi all’altalena, nostalgicamente tornando col pensiero ad una Ungheria di maniera, mentre sul fondo scorrono le immagini del Danubio. Valentina Farcas è l’Adele che t’immagini, luminosa e sbarazzina, dal timbro morbido e agile al tempo stesso, perfettamente in parte in questo che è uno dei ruoli tipici dell’operetta, quello della giovane vivace, furba e insolente: lo dimostra, per esempio, in Mein Herr Marquis, venata al punto giusto di grazia e di spirito.

Natascha Petrinsky, che siamo abituati a vedere nei ruoli ben più impegnativi di Herodias o di Klytämnestra dell’altro Strauss, porta qui in dote al suo Principe Orlofsky elementi di leggera inquietudine e franca ambiguità. Nei ruoli maschili si segnala l’Alfred di Mert Süngü, dalla voce squillante da tenore di grazia rossiniano (quando non mozartiano), di cui ricordo il recente Pedrillo al San Carlo, Alexander Kaimbacher, stralunato e impassibile Eisenstein, oltre ad Antonio Stornaiolo che fornisce una bella prova d’attor brillante nei panni del carceriere barese imprestato all’Austra-Ungheria. Molti gli applausi, alla fine, sulle note della polka Unter Donner und Blitz, eseguita dall’Orchestra del Teatro Petruzzelli in ottima serata, diretta con gran piglio da Nir Kabaretti.

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