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Kulunka Teatro: Solitudes in scena al Teatro di Rifredi

Kulunka Teatro: Solitudes in scena al Teatro di Rifredi
Fermata Spettacolo

Lo spettacolo Solitudes dei Kulunka andato in scena dal 6 all’8 Dicembre scorsi convince per più motivi. In ordine di apparizione: per la scenografia ed il suo utilizzo intelligente in relazione al disegno luci. Per l’uso del corpo risultato esilarante, potente, in definitiva efficace nella vicenda narrata dove un raggelante venticello grottesco ci fa a tratti ridere, o sorridere, ed a tratti piangere. Convince per il voler parlare di  contemporaneità a tutti e senza parole. Infine: per le Maschere. Non si può non citare l’eccezionale esperienza di Familie Flöz che viene qui raccolta e fatta propria.

Solitudes

Quei grossi faccioni creati dalla brava Garbiňe Insausti co-autrice ed interprete insieme a Josè Dault ed Edu Carcàdo, ambedue meritevoli di plauso, riescono nella scelta della loro fisionomia a ben sorreggere il compito di simboli dell’odierno campionario umano. In particolare nelle rughe dell’anziano e del figlio sembrano essere solcate le durezze ed impotenze tutte (anche colpevoli) di una vita, con le sue bassezze, le sue gioie e le sue prove. Occasioni che per quanto semplici assumono di colpo, magari di fronte alla maschera della sopraffazione e del sopruso, forse anche un improvviso lato eroico per accartocciarsi ancora ed ancora in solitudini. Spassoso il rapporto tra la coppia di “agée”, la loro scansione della giornata e l’applaudito, fatale, esilarante epilogo dell’episodio. La maschera della nipote, di ispirazione decisamente più fumettistica, meno realistica coi suoi due occhi “alla Olivia” è altrettanto ben fatta e colpisce nella sua forza comunicativa. “Comunica incomunicabilità”, disagio ed una innegabile aderenza al reale.  E noi ridiamo anche qui. La scena del lancio delle ceneri è un esempio.

Solitudes. I personaggi frequentemente terribili che si alternano sulla scena ci sono intorno nella vita, ci abitano dentro e ci rendono altrettante maschere sedute ad applaudire  maschere che indossano delle maschere ….

Significativa la capacità di farci dimenticare ciò che accade sulla scena, che riflette il contemporaneo, il suo avvitamento ruvido e doloroso, la distanza e superficialità dei rapporti familiari, forzati, vuoti, frettolosi. Un contemporaneo che risulta tragicamente ridicolo. Il pericolo dello sviluppo della storia appariva, assistendovi, nel cadere in uno stereotipato che sì funziona ed è essenziale allo stile teatrale scelto ma che avrebbe potuto avere un effetto banalizzante. Riesce a svincolarsene per la qualità della riflessione che la compagnia ci mette davanti: siamo frequentemente tristi figure. La mediocrità e la brutalità sono all’ordine del giorno.

Non si parla in Solitudes, scavalcando il travaglio linguistico a volte necessario in altri ambiti teatrali che si tormentano, anche con merito, sui palchi. Palchi che si interrogano sul sottinteso che tutto è già stato detto a teatro. Quindi sulla funzione del farlo, vederlo, scriverlo così come sul fare, vedere e scrivere “la Vita”. I Kulunka riescono giocando con creature di altra specie, a mostrarsi realmente. E ci costringono a mostrarci a noi stessi.

Lo fanno in maniera vivificante, energica, reattiva, lo fanno dandoci alcuni momenti di poesia davvero intensa grazie ad un teatro di gesti la cui potenza ci prende per quasi tutta la durata dell’interpretazione. Lo spazio scenico è molto ben utilizzato, forse in un paio di casi un po’ forzato o non al pari delle trovate meglio riuscite, come la passerella sul mare, l’entrata in scena di alcuni sogni che interagiscono, la finestra che illumina la strada. Raffinata la rappresentazione della casa dei due anziani fulcro di tutta la scenografia e dimora della Solitudine.

Una scelta che colpisce il segno quella della direzione Artistica di Pupi e Fresedde, la cui volontà in questo come in altri casi dimostra un’attenzione ad alcuni linguaggi artistici di solida validità e spessore e che speriamo assumere sempre maggior attenzione ed attrarre sempre più pubblico, che comunque non mancava all’appuntamento ed all’applauso dei Kulunka Teatro.

La cosa più urgente non mi sembra difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall’ ansia di vivere meglio e di avere fame, ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura, delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame.

Antonin Artaud Il teatro e il suo doppio(1938)

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