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L’implacabile macchina teatrale di Richard II di Peter Stein

L’implacabile Macchina Teatrale di Richard II di Peter Stein
Fermata Spettacolo

Viene da domandarsi, alla fine di questo rigoroso e severo Richard II, in scena qui a Napoli al Teatro Mercadante, con la prestigiosa firma di Peter Stein e l’interpretazione straniata e aliena di Maddalena Crippa, quanto possa aver influito la dissoluta condotta del sovrano sull’esito della vicenda, se non giustificando, certo in qualche modo alleviando il peso negativo, sull’etico giudizio nostro, dell’usurpazione: in altre parole, c’è da chiedersi – se lo chiede Shakespeare, ce lo chiediamo noi dopo cinquecento anni – donde derivi la legittimità del potere, quando e in che modo sia lecito toglierlo ad una persona e trasferirlo ad altra, facilmente e semplicemente trasmettendone i simboli, pur se talvolta esso risulti talmente connaturato alla persona da condizionarne fortemente condotta e pensieri e da riuscire impossibile, pur nel caso d’un re che abbia perso la corona, non considerarlo altro che – pur allora – sovrano, “nato non per postulare, ma per imporre”, fino alla morte, e ancora oltre, fino a condizionare, con la sua ombra imbronciata, i secoli a venire. Perché è proprio questo che succede, in questa poco frequentata tragedia di Shakespeare – tutta in versi, a sottolinearne l’andamento lirico e di pensosa e dolorosa riflessione – dove si va ad esplorare la parabola del femmineo ultimo rampollo dei Plantageneti, deposto dopo vent’anni di regno: dopo di lui per trent’anni si affronteranno le due case cadette – degradati rami della pianta madre – degli York e dei Lancaster nella sanguinosa guerra che la storia ricorda dagli stemmi loro, le poco poetiche rose – la bianca e la rossa – che daranno il proprio nome a quel sanguinoso periodo, che, alla fine, traghetterà l’Inghilterra fuori dalle secche del Medioevo verso il Rinascimento. Il potere, il suo esercizio, la sua spasmodica ricerca, non possono che portare, dunque, che sangue e rovina. Peter Stein sceglie di mettere in scena questa amara riflessione sul potere attraverso una accuratissima, diligente, attenta – quasi scrupolosa e pedante – adesione al testo, nel rispetto della tradizione più rigorosa.

Lo fa costruendo prima d’ogni altra cosa una camera obscura, opera del disegno di Ferdinand Woegerbauer, che se in qualche modo ricorda, nell’essenzialità geometrica e spigolosa dell’andamento delle sue superfici piane e levigate, il teatro dell’epoca del bardo – nello studiato trompe-l’œil che induce l’occhio nostro a far creder due pannelli paralleli e di misura diseguale l’uno cornice, metaforica quinta, d’un immaginario boccascena costituito dall’altro – nella metodica precisione del nero e del grigio metallico, rimanda invece a scientifiche metodologie, logiche simboliche derivate da purissime astrazioni matematiche; in questo ambiente asettico e rigidissimo, il regista immerge personaggi e vicende, ma prima di tutto – potrebbe esser diversamente? – i simboli di quel potere che è il vero protagonista di quelle storie, unico spirito che anima quei corpi, altrimenti privi d’ogni vitalità e verità: il trono, la corona, lo scettro, sono gli oggetti, com’è ovvio, su cui più scopertamente s’appunta lo sguardo dello spettatore e la cupidigia dei personaggi; oltre questi, con maggior suggestione, emergono dal buio e dal nero del fondo, colorate allusioni al primo e poi del secondo re, il bianco cervo di Richard – quello stesso animale simbolo di questo Re posto a suggello sul retro del Dittico Wilton della National Gallery, il rosso triplice leone del quarto Henry, il cugino usurpatore, immersi nel fondo oro di significato e osservanza bizantina, rimandando con gli occhi e il cuore al Medioevo coloratissimo e sgargiante dei nostri sogni infantili, ancora una volta espressione del dualismo del gioco del potere tanto caro a questo regista. E poi altri oggetti: i guanti della sfida dei cavalieri del terz’atto, che s’ammucchiano a terra con non so quanto volontaria ironia, espressione del ridicolo formalismo di quei tempi – e dei tempi del Bardo, due secoli dopo – che rimanda alle ridicolezze odierne, fissandole in un eterno rituale che possiede la forza e il formalismo d’una liturgia in fondo tranquillizzante e anestetizzante; e, naturalmente, lo specchio infranto, estremo tentativo di Richard di ritrovare se stesso – o l’immagine di sé – dopo la perdita della corona, icona della stessa identità sua: il volto che appare nello specchio – e che il re distrugge – appartiene ormai ad un estraneo, incongruamente non segnato dal dolore (“…O specchio adulatore, come i miei cortigiani del buon tempo andato: stai cercando d’illudermi…” ), espressione d’una fragilità che è insieme temuta disgrazia e pegno di una nuova, raggiunta superiorità e maturità che si infrangerà solo con la morte (“Una ben fragile gloria brilla su questa faccia: la faccia di un uomo fragile quanto la sua gloria”).

Fragilità di cui è segno naturale e patente l’interpretazione magistrale del protagonista maschile da parte di un’attrice come Maddalena Crippa, operazione già in precedenza tentata, per la verità, da Deborah Warner, ma che qui trova giusta e felice compiutezza, sottolineando anche, nella modalità di recitazione straniata e straniante scelta, il continuo richiamo alla metateatralità dell’intero impianto registico, che scopertamente tratta l’intera pièce rifuggendo da ogni possibile realismo, accentuando invece il carattere di costante “recita” della messa in scena: la perfetta solitudine del re risulta ancor più evidente quando si pensi che l’attrice è l’unica “donna” presente in scena, ad eccezione della petulante Signora di York, avendo il regista provveduto a tagliare del tutto – saggiamente, in questa ottica – la parte della regina Isabella, che è poi l’unica persona che in qualche modo dimostri al re un affetto non interessato, del resto poco ricambiato dall’anaffettivo monarca, che fa di tutto per inimicarsi tutti coloro che lo circondano, a cominciare dal duca di Lanchester, Paolo Graziosi perfetto protagonista d’eccezione di un quadro di enorme forza visiva e visionaria, la sua morte e l’inno all’Inghilterra, “usa a asservire gli altri, ignobilmente ridotta a asservire se stessa”, che viene resa mirabilmente, grazie alla maestria e magia di Stein, come un evidente rinvio alla Lezione di anatomia di Rembrandt, tutta giocata sul dualismo tra la luce e le tenebre, il bianco e il nero. La sensazione finale è che tutto proceda solenne e spedito come un grande fiume, con lo stesso ininterrotto fluire delle acque, dove la gran massa d’acqua che scorre rapida e inesorabile verso la foce, inganni tuttavia, proprio a causa dell’ingente portata, sulla reale velocità della corrente, percepita come molto meno lesta e pronta di quanto non sia, generando, soprattutto nella prima parte, i primi due atti, qualche stanchezza e monotonia, cui non avrebbe nuociuto una maggiore vivacità d’insieme, a salvaguardia dell’attenzione dello spettatore.

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