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L’American buffalo di D’Amore, dall’America degli anni ’70 alla Napoli di oggi

L’American buffalo di D’Amore, dall’America Degli Anni ’70 alla Napoli di oggi
Fermata Spettacolo

Nel 1975 il premio Pulitzer David Mamet scrisse American Buffalo, un testo che la critica giudicò allora “la migliore commedia del decennio”; dallo stesso testo nel 1996 fu tratto un film altrettanto apprezzato e stellato con protagonista Dustin Hoffman e uno spettacolo teatrale che ha debuttato nel 2010 allo Steppenwolf Theatre di Chicago.
Vent’anni dopo, nel 2016, il nichelino di Mamet ha varcato i confini spazio temporali ed è giunto a Napoli nelle mani di Maurizio De Giovanni e di Marco D’Amore che lo hanno riscritto e portato nei teatri di tutta Italia; l’ultima (in ordine cronologico) tappa di questo viaggio è il Teatro Bellini dove è andato in scena dal 14 al 19 novembre.

D’Amore oltre ad averne curato la regia è anche uno dei protagonisti, nei panni di O’ Professor, insieme a Tonino Taiuti (Don) e Vincenzo Nemolato (Robbè).
La storia che lega i tre uomini è semplice e riassumibile in poche righe: Don, proprietario di una “puteca” (“bottega” in dialetto napoletano), è un rigattiere con la passione per gli States che si accorge di aver venduto ad un collezionista un nichelino con sopra inciso un bufalo americano ad un prezzo nettamente inferiore al suo valore; decide di riprenderselo facendo un colpo e nel piano coinvolge Robbè, giovane e ingenuo tossico che lavora come tuttofare nella bottega, e O’ Professore, un amico di cui si sa poco se non che naviga in cattive acque. Il piano prevedibilmente fallirà per una serie di equivoci e imprevisti lasciando i tre a mani vuote.
Marco D’Amore, al suo debutto lo scorso anno, descriveva American Buffalo come “la storia di un fallimento. Annunciato, quasi voluto, destino ineluttabile a cui non ci si può sottrarre. […] E’ l’apologia della deriva: tre esseri umani e un piano improbabile destinato alla rovina a cui ci si attacca con le unghie senza rinunciarci! E’ un desiderio di rivalsa, di vita anche a costo della vita altrui”.

Raccontato così lo spettacolo si prospetta come un’epopea, una messa in scena dell’infinita battaglia dell’uomo per sopravvivere, un’eco lontana dell’ineluttabile naufragio ungarettiano.

Ma usciti dalla sala quel che resta addosso è invece una sensazione di confusione e straniamento che si può riassumere nella frase: “Cosa avranno voluto dire?”

I tre attori, innegabilmente bravissimi, sono incastrati in ruoli superficiali che non vanno mai a fondo e che sotterrano emozioni e idee sotto un continuo ricercare la risata facile attraverso il doppio senso o il linguaggio sboccato.
Tanto si sarebbe potuto lasciar scoprire di Don, un uomo che coltiva un sogno, l’America dream, in un tempo e in un posto sbagliato; o di Roberto, il ragazzo tossico sempre a cerca di spicci per vivere che però lascia intravedere (pochissimo) un malessere e una nobiltà d’animo ben più grande di quella dei suoi amici; o di ‘O Professor, figura indecifrabile nel senso che mai nello spettacolo si capisce cosa vuole, cosa pensa, perché agisce in un certo modo.

Nel trasportare l’opera a Napoli, in napoletano, De Giovanni fa il passo più lungo della gamba ammiccando in certi momenti alla commedia di De Filippo senza però evocare la risata amarissima del grande commediografo.
Che alla fine tutto si concluda in una disfatta lo si sa e, come dice il regista, ce lo si aspetta anche, ma il motivo della debacle sfugge allo spettatore. Sfortuna? Cattiva fede? Disorganizzazione? La domanda resta.

A salvare lo spettacolo sono le grandi performance degli attori, non solo di volti noti come quelli di D’Amore o Taiuti ma anche quella di Nemolato perfettamente a suo agio nel suo ruolo, forse quello a cui viene dato più spessore e intensità.
Maestosa, e molto simile a quella di Chicago, la scenografia di Carmine Guarino che però è di una bellezza e una ricchezza di particolari tale da essere un piacere per gli occhi che a creare un’adattissima e splendida atmosfera.

Tirando le somme, in generale ritengo che riscrivere un testo cambiandone tempo e luogo sia sempre un grosso rischio e che il più delle volte il risultato deluda le aspettative apparendo una forzatura e perdendo, o comunque allentando, quello che era il messaggio iniziale pensato anche in funzione del dove e del quando, questo è quello che secondo me è successo ad American Buffalo, un testo profondamente radicato nell’America degli anni ’70 che allontanato dalle sue radici e impiantato altrove si affievolisce e perde i contorni.
D’Amore nonostante questo mette comunque su uno spettacolo degno, per trascorrere una serata piacevole e godersi una buona prova teatrale.
Si vedrà al prossimo progetto, magari meno ambizioso, se riuscirà a far emergere a pieno il suo indiscusso talento.

L’American buffalo di D’Amore, dall’America degli anni ’70 alla Napoli di oggi
Fermata Spettacolo



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