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Il ratto dal serraglio, la musica, la luce, il teatro

Il Ratto Dal Serraglio, la musica, la luce, il teatro
Fermata Spettacolo

L’incanto paradisiaco della luce e della musica è di scena al San Carlo di Napoli: a volte la malattia dell’iperbole affligge il povero recensore che, nell’ansia di descrivere ai suoi tre lettori ciò che gli ha riempito occhi mente e cuore, si sforza di trovar aggettivi confacenti all’emozione sua, e facilmente, inesorabilmente, fatalmente, sbaglia misura, ricorre all’eccesso, perde il senso delle proporzioni. Ci sono casi, tuttavia, e questo è un di quelli, in cui il suddetto chiosatore ha tutte le ragioni per ricorrere, senza timor d’esagerare, al superlativo che denota l’eccellenza: il mozartiano Ratto dal serraglio che in questi giorni è in scena qui a Napoli, al Teatro San Carlo, è un allestimento eccezionale, inserito da una rivista inglese nei “cinque più grandi spettacoli della storia dell’opera dell’ultimo cinquantennio”: a tutti gli effetti un compendio dell’arte della messa in scena del novecento che andrebbe fatto studiare come esempio del giusto modo d’allestire il teatro in musica – che ha a che fare con opere come questa, dalla tenera età di più di duecent’anni – secondo i canoni della contemporaneità, senza tradire né l’opera né le esigenze dell’attualità. Nato nel lontano 1965 per la Scala, poi ripreso dallo stesso Teatro nel 1972, più volte riproposto in vari teatri (anche qui a Napoli, nel 1982), l’allestimento porta la prestigiosa firma di Giorgio Strehler con le scene e i costumi di Luciano Damiani e le luci di Marco Filibeck per servire alla perfezione la macchina teatrale concepita da Mozart e Stephanie Junior nel 1782, giovanile Singspiel creato per il K.K. Theater an der Burg, il teatro della corte, che i viennesi chiamano ancor oggi die Burg, costruito da Maria Teresa e sede del National Theater voluto da Giuseppe II, sorta di fondazione alla ricerca di una via tedesca nazionale all’opera, da contrapporre all’opera italiana. Opera tedesca e in tedesco, dunque – com’è singolare il parallelo, che spontaneo viene alla mente, con l’altro Singspiel, quello Zauberflöte che invece chiuderà la carriera e la vita del musicista austriaco, legato a questo da insospettati scoperti e patenti e contemporaneamente sotterranei e misteriosi legami – che dichiaratamente, sia musicalmente (si consideri l’autonomia di sviluppo musicale della strumentazione e, più in generale, il percorso del discorso musicale, volto alla struttura sinfonica, in cui le voci si inseriscono con estrema disinvoltura di stili) sia drammaturgicamente (una turcheria per molti versi tipica, nel suo rincorrere momenti d’esilarante comicità alle spalle del “turco”, ma per altri, invece, del tutto originale, con considerazioni e meditazioni sorprendentemente “moderni” e attuali a riguardo la contrapposizione Occidente/Islam) sia ideologicamente (la conclusione, tutta illuministicamente volteriana, già fa presagire il Mozart massone, che completerà il suo apprendistato, culminato nell’iniziazione alla loggia Zur Wohltätigkeit, due anni dopo) il modo italiano mette in crisi e contesta, aprendo nei fatti, proprio con questa chiara e nitida operina, dall’apparenza così futile e leggera, la gran via maestra che di qui conduce, passando per Weber prima e per Wagner poi, alla grande opera romantica tedesca. Chiarezza e nitidezza e insospettata profondità, dunque, che l’allestimento s’incarica di sottolineare, favorendone in ogni modo la comprensione, per noi che viviamo la contemporaneità, due secoli dopo la sua composizione: crea, l’arte di Damiani, un aggettante prolungamento del palcoscenico “al di fuori dell’arco del boccascena”, una mano tesa verso la sala, col duplice scopo, da un lato, d’avvicinare l’artista al pubblico, rompendo la quarta parete, dall’altro di creare, grazie alle luci, un’infinita possibilità di modulazione dell’illuminazione a sottolineare l’inesauribile varietà delle situazioni.

La luce, a somiglianza della musica – anzi, servendo mirabilmente quella – per la scena “penetra e risplende, in una parte e più e meno altrove”, creando uno spazio scenico inusuale – quello delle tavole aggettanti sul golfo mistico – che riduce la presenza degli attori a oscure silhouettes, ombre cinesi che, se da un lato rimandano a talune cineserie tipiche del settecento mozartiano, dall’altra esaltano la possibilità fantastica offerta dalla musica, in perpetua oscillazione tra realtà e fantasia: è lo spazio, questo, della musica, infatti, dell’astratto fluire dei pensieri, del sentimento e dell’amore; c’è poi l’universo, invece, e decisamente contrapposto al primo, della piena luce, dove alberga la commedia, il fluire del tempo e delle ore, la concretezza delle paure e delle risate, la vita effettiva degli uomini; in mezzo, poi, il mondo reale delle infinite possibilità dei mezzitoni e dei grigi, dei chiaroscuri che esaltano le forme e creano i rilievi, restituendo alle tre dimensioni del mondo newtoniano uomini e cose, che sbalzano perfetti e torniti dal fondo come dipinti da un provetto pittore che non si limiti all’imitazione della natura. Inserisce poi, lo scenografo, questo mondo di pura e trasparente luce, in una scatola scenica delimitata, con estrema e disarmante semplicità, dietro, da un fondo opalescente dove, se si vuole, proiettare le nostre fantasie di cielo e di mare, di sole e di luna, d’orizzonti perduti nella lontananza di spazi e di tempi, incontaminato territorio del pensiero, delimitato, ai lati, da quattro quinte mobili dipinte con l’arte disadorna del disegno per l’infanzia – richiamandoci con ciò a un tempo più fortunato – che accostano immagini diverse – portici delimitati da bifore arabeggianti, minareti dalla mezzaluna che spicca sui tetti a cipolla, freschi giardini chiusi da cancelli e catene – come un collage di ritagliate illustrazioni. Sul davanti, poi, la scena è chiusa da un posticcio boccascena e un sipario di pesante broccato di velluto stinto dal tempo e dall’usura, completato da una gran trave di sostegno al di sopra, a bella posta in piena visibilità, come a manifesto segno di teatro nel teatro, disvelamento dell’illusione teatrale e, insieme, per armonia e concordanza degli opposti, definitiva resa dei sensi nostri all’incanto e al sortilegio. La regia di Strehler, dal canto suo, approfondisce il discorso metateatrale, imponendo agli attori non solo il movimento dalla luce all’ombra e viceversa, che già di per sé supera la finzione scenica, mostrandocela per ciò che è, ma spesso li fa rivolgere direttamente alla sala – coinvolgendola nell’antico gioco delle parti, rendendola complice e partecipe – dà loro la possibilità di uscire ed entrare, in apparente libertà, dalla finzione teatrale, inchinandosi platealmente al pubblico dopo un’aria, o accendendo le mezze luci in sala durante l’esecuzione della stessa: teatro, puro teatro in controluce che, rendendo palese il mondo suo fittizio, ci mostra la natura artificiosa e illusoria non solo della scena stessa, ma pure di ciò che ci ostiniamo, contrapponendola ad essa, a chiamare realtà.

Alla perfezione dell’allestimento scenotecnico è degno contraltare l’impegno degli interpreti. Il maestro Hansjörg Albrecht, quarantunenne tedesco, è direttore artistico del Münchner-Bach Chor Orchester e appare molto a suo agio nella direzione dell’Orchestra del Teatro: l’approccio scelto è confidenziale e intimo, come del resto adatto alla bisogna, procedendo con gesti eleganti e senza bacchetta a restituire un’esecuzione adeguata della partitura, accompagnando spesso i cantanti col canto muto, alla ricerca del giusto ma difficile equilibrio tra popolanità dell’orchestrazione, compresa l’inclusione di strumenti tipici della turcheria – triangoli, flauto piccolo in sol, grancassa, tamburello, tamburo turco e piatti – nitore cristallino della musica che deve restituire il valore della luce che pervade l’intera vicenda, insieme al vortice incalzante della commedia tanto che, per dirla con l’Autore “sarebbe impossibile addormentarcisi sopra anche avendo trascorso tutta una notte in bianco”; stessa tensione caratterizza pure la prestazione del Coro, diretto da Marco Faella, impegnato nella scena che separa l’inizio dell’opera dall’entrata del Pascià e di Constante, il cosiddetto Coro dei Giannizzeri, misto nonostante si tratti di un drappello di militari, anch’esso caratterizzato da strumentazione e ritmo da marcia turca. Com’era nella tradizione del Singspiel, la partitura del Ratto è ricchissima di arie e interventi solistici: Mozart fa diventare questa abitudine popolare pretesto per creare una memorabile galleria di personaggi, ad ognuno dei quali è affidato un alto numero di interventi che finiscono per conferire all’opera quel carattere di grande esuberanza che la caratterizza; spesso, inoltre, i personaggi preconizzano, per noi posteri, più o meno chiaramente, altri caratteri della grande galleria mozartiana. Così Konstance, sulla scena Maria Grazia Schiavo, è, anche musicalmente, anticipo della prossima Fiordiligi ma anche di donna Elvira: il nostro soprano, beniamino del pubblico del San Carlo, ha fornito un’ottima prova, confortata da molti applausi finali, grazie anche alla solidissima preparazione e allo studio continuo, che le ha permesso di passare con successo dal repertorio barocco a quello romantico, ormai artista completa e a tutto tondo; Belmondo è invece interpretato da Steve Davislim, tenore dalla voce chiara, dotato di grande sensibilità e finezza, oltre che di notevole presenza scenica. Regula Mühlemann, dalla voce agile e leggera, a tratti dal suono piuttosto tagliente, ben adatta a disegnare la Blonde inglesina indipendente e libera, insofferente delle costrizioni e delle catene; Pedrillo, invece, antesignano dei Figaro e Leporello che verranno, s’incarna in Mert Süngü, tenore dalla bella voce squillante. Bjarni Thor Kristinsson è Osmin: il vero “cattivo” sulla scena, quello a proposito del quale Mozart diceva che “le passioni, violente o no, non devono essere mai espresse al punto da suscitare disgusto”, è anche il motore comico dell’opera, musicalmente protagonista, grazie alle non comuni doti interpretative, di quella vera e propria fantasie comiche che è il duetto con Pedrillo.

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