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Quattro ore e tre lingue diverse per raccontare il viscido paese di Jan Fabre

Quattro ore e tre lingue diverse per raccontare il viscido paese di Jan Fabre
Fermata Spettacolo

È inizio giugno, sto sfogliando il catalogo del Napoli Teatro Festival e vedo lo spettacolo Belgian rules/Belgium rules (gioco di parole che significa letteralmente Le regole belga/ Il Belgio comanda) di Jan Fabre, ci penso un po’ e mi ricordo che è lo stesso artista che esporrà a breve un’opera gigantesca dal titolo L’uomo che misura le nuvole sul tetto del museo MADRE di Napoli.

Mi incuriosisce e lo segno nel calendario degli spettacoli da vedere e recensire. Passa un mese circa, l’esposizione al museo sta avendo un grande successo e io mi ricordo che il 1° luglio c’è la prima mondiale del suo spettacolo teatrale, è il caso di informarsi un po’ su cosa andrò a vedere.

Belgian Rules foto Wonge Bergmann

Leggo la sinossi dell’opera e sembra molto interessante. Si parla del Belgio, del suo pressoché assente senso di appartenenza a una nazione, dei suoi eccessi; il testo è in francese, inglese e tedesco, rispettando il multilinguismo di questo “stato nano” nel cuore dell’Europa, e la perfomance comprende recitazione e danza dal momento che Fabre, oltre a essere un regista teatrale, uno scenografo e un visual artist, è anche un coreografo.

Mentre continuo le mie ricerche preliminari un dettaglio attira la mia attenzione: la durata dello spettacolo è di quattro ore. Penso di aver letto male, cerco su internet e scopro che non solo non c’è nessun errore ma che questa è tra le opere lunghe dell’artista quella più breve: il suo esordio è avvenuto infatti circa trent’anni fa con una performance teatrale, This is theatre like it was to be expected and foreseen, di otto ore, qualche anno dopo ha portato in scena The power of theatrical madness di cinque ore, per raggiungere poi l’apice nel 2015 con Mount Olympus della durata di ventiquattro ore.

Mi basta questo e un veloce sguardo alle sue opere e alla sua biografia per capire che Fabre è un provocatore, un eccentrico che ama mettere in discussione il modo di fare arte e teatro mescolando continuamente i dogmi imposti dalla tradizione.

Belgian Rules foto Wonge Bergmann

La sera della prima entro al Teatro Politeama scettica e  con un po’ di timore di non riuscire ad arrivare fino alla fine dello spettacolo (cosa che, lo anticipo, accade a molti spettatori che nel bel mezzo della rappresentazione vanno via), ma non voglio partire sconfitta, mi siedo al mio posto e già capto nell’aria una strana tensione, la platea è pienissima e siamo tutti lì in attesa che si alzi il sipario.

Lo spettacolo comincia con un proclama in cui un uomo, tracannando birra, spiega che il Belgio è il paese delle patatine, della birra, delle waffles e del cioccolato, che nessuno lo deride più dei suoi stessi abitanti che sono solo degli scansafatiche e ubriaconi. “Non fatevi coinvolgere dall’ondeggiare di bandiere e dalle feste scoppiettanti, a cui siete invitati” dice “L’epica di questo strano regno non è il nazionalismo, ma la storia della sua totale assenza. Benvenuti ad Assurdilandia!”.

E assurdo è tutto quello che accade in scena da questo momento in poi, circa venti attori/ballerini portano sul palco le contraddizioni di un paese in cui è permesso fare tutto finché non si è osservati da nessuno; una piccola nazione che il plurilinguismo ha reso una Babele; uno stato in cui, a dispetto dell’idea di rigidità e rispetto delle regole che viene percepito dall’esterno, regna in realtà il caos di un carnevale perenne.

Belgian Rules foto Wonge Bergmann

Fabre non si limita a raccontare le cose come stanno ma le mostra con immagini forti e dissacratorie: i corpi che ballano e si contorcono sul palco sono vestiti con abiti bellissimi che però lasciano sempre in mostra le parti intime; i gesti e le azioni dei performers mirano a scandalizzare simulando rapporti sessuali e masturbazione, bevendo, ruttando, arrivando addirittura a urinare sul palcoscenico e tra i protagonisti in scena spicca un gruppo di indaffarati uomini-piccione. Eppure in questo contesto che pare totalmente dominato dal caos, l’artista riesce sempre a creare armonia senza mai perdere il filo. La sua narrazione continua attraverso monologhi eseguiti da uomini-riccio, che rappresentano la chiusura dei belgi, che di volta in volta affrontano temi quali la fantasia, la morte, la lussuria, la finzione con la solennità dei cori ellenici di cui sono un’eco lontano.

Quella dell’artista è una critica ferocissima e intima alla sua nazione ma, adattando le parole che Claudio Magris nell’opera L’infinito viaggiare ha dedicato a Fontane, il suo biasimo è più significativo, perché non nasce da un’ignorante ostilità bensì da un amore critico, da una passione (quella per il suo paese) che – come ogni vera passione – rende più acuto e più severo lo sguardo nei confronti di ciò che si ama.

Fabre ama e conosce profondamente i due argomenti di cui parla in queste quattro ore: il Belgio e il teatro e perciò può permettersi di dissacrare entrambi, di parlarne male, di capovolgere l’opinione comune e di arrivare persino a mescolarli tra loro dicendo che il Belgio è il teatro e il teatro è il Belgio.

Belgian Rules foto Wonge Bergmann

La sua è una critica costruttiva che riflette sugli stereotipi, buoni e cattivi, per annientarli; egli distrugge i miti per sostituirvi gli uomini e porta all’estremo i bisogni fisiologici dell’essere umano per elevarli ad astrazione, mostrando come essi non siano altro che  manifestazioni di istinti universali e naturali che la società borghese col suo buon costume ha demonizzato e stigmatizzato col marchio di “indecenti e socialmente inaccettabili”.

È impossibile tentare di cogliere qui, in poche righe, la complessità e i mille richiami dello spettacolo Belgian rules/Belgium rules quel che posso dire è che non solo sono sopravvissuta alle quattro ore di performance ma che tornerei a rivederle per poter assistere daccapo a questo bellissimo e coloratissimo carnevale portato in scena da Fabre e dalla sua infaticabile compagnia di attori e ballerini.

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