Get Even More Visitors To Your Blog, Upgrade To A Business Listing >>

Elektra, evocazioni remote, contemporanee profezie

Elektra, evocazioni remote, contemporanee profezie
Fermata Spettacolo

Cos’è la Reggia Degli Atridi, odiosa agli dei, conscia di molti consanguinei massacri, di teste mozze, macello di uomini, suolo impregnato di sangue, se non scarto rugginoso d’un passato arcaico e impenetrabile, irriducibile all’ego della ragione, decifrabile, nelle rune arcane che vi sono incise, solo allo sguardo guercio d’un Id alieno e barbaro? Appare così, all’occhio del pubblico del Teatro San Carlo di Napoli, la scena d’Elektra di Richard Strauss, ideata già qualche anno fa dalla mano felice di Anselm Kiefer, relitto biancastro d’incompiuta costruzione già antica al VI secolo prima di Cristo, immagine acheropita e impedita nella sua possibile evoluzione d’un’idea di città maledetta, dei pieni e dei vuoti che si susseguono scanditi dal calco di containers che lasciano impronte ferrose nel cemento polveroso e friabile: capitale condannata, metafora delle nostre contaminate metropoli macchiate dal peccato originale del secolo breve – d’uomini che, fidando nelle idee loro, le deificarono fin quasi al sacrificio totale – espressione d’una artefatta antropologia della surmodernité che attraversa tempo e spazio fino alla nostra contemporaneità, per diventare, da nonluogo dell’annullata umanità che evita ogni relazione, luogo che vive retto solo dall’odio d’Elektra, alektros, vergine orfana, e dei suoi deliri. Nei suoi pieni rigati e muti, nei suoi vuoti bui e osceni da cui vomita sangue e incubi – che non consentono il sonno ad alcuno che si trovi in sorte d’abitare nei suoi recessi – il regista Klaus-Michael Grüber ambienta una rappresentazione che poco – com’è doveroso – concede al realismo, spesso sconfinando nell’onirico fiume dell’allucinato sperare.

Così, se Elektra ha voce e corpo d’Elena Pankratova, atta certo alla guerra e all’invettiva feroce, l’altra faccia delle esaltate figlie d’Agamennone, la gentile Crysothemis, ha canto e leggerezza di Manuela Uhl: se l’una ascende senza fatica apparente attraverso la vertiginosa partitura, dall’evocazione del padre Agamemnon – quelle quattro note strappate che lo rendono presente e vivo – alla sfrenata danza finale dell’annientarsi sotto lo stravolto last des glückes, l’altra evoca femminili sogni di figli d’allattare, desideri di quotidiana normalità, miraggi di vita ordinaria vissuta nel cullarsi dell’anonima felicità dei semplici: l’una, infine, il contraltare dell’altra, il contrappeso studiato e infernale, fino al dubitar d’esser null’altro ch’espressioni della stessa, scissa persona, con le sue pulsioni, i suoi repressi e rimossi impulsi, identificazioni fallaci, proiezioni e introiezioni d’ossessivi fantasmi, prima d’ogni altro quello del padre, vero protagonista, pur nella totale assenza sulla scena, dell’opera, come in quel formidabile modello – che di certo non poteva sfuggire al quarantacinquenne compositore bavarese – del wagneriano Götterdämmerung, del Wotan, cioè, padre assente e immanente, della figlia che attraverso il sacrificio redime il mondo, del Valhalla che trascina gli dèi nella sua inevitabile rovina: un modo come un altro, certamente sublime, di regolare i conti col passato e uccidere – metaforicamente – il padre, come ogni buon figlio deve fare, come ogni figlia, come Elektra, deve fare con sua madre.

E poi la madre, appunto. L’insonne Klytämnestra possiede lo sfibrato passo di Renée Morloc, l’incedere lento e regale – affatto materno, nel suo glaciale straniarsi – della sovrana d’uno sfiduciato paese, che – sventura per quel popolo – non soffre in apparenza alcun rimorso per l’ombra del marito re, non ne riconosce affatto le fattezze in quel Etwas hin über mich, quel qualcosa su di lei, che striscia nel crepuscolo, che le turba il riposo per l’eternità: non più umana della reggia cui appartiene, chiusa nell’ingessato strascico regale che visivamente traduce la didascalia di Hugo von Hofmannsthal…la regina è sovraccarica di gemme e talismani… le dita rigide di anelli… le palpebre gonfie e pare che le costi una tremenda fatica tenerle aperte… – non è più possibile provare per lei alcuna umana solidarietà, non più di quanta se ne possa provare per il mondo suo – il mondo nostro – in disfacimento e destinato a definitivo perire. Perché, sia chiaro, la sconvolta reggia degli Atridi è il mondo nostro, della nostra sventurata contemporaneità, i fantasmi che agitano e affliggono quegl’inconsapevoli abitanti sono esattamente i nostri incubi, che Strauss seppe evocare da un remoto passato per predire un tragico futuro, che grandi artisti come Keifer, e Grüber hanno saputo attualizzare, che la mano sapiente di Juraj Valčuha – alla prima prova operistica con la “sua” nuova Orchestra del San Carlo – ha saputo interpretare con enorme rispetto, autentica appropriatezza, stupefacente resa cromatica: profezie d’un ignoto futuro travestite da evocazioni del passato che l’applauso lungo, insistito, convinto, si sforza, disperatamente, di esorcizzare e sublimare.

Elektra, evocazioni remote, contemporanee profezie
Fermata Spettacolo



This post first appeared on Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E, please read the originial post: here

Share the post

Elektra, evocazioni remote, contemporanee profezie

×

Subscribe to Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E

Get updates delivered right to your inbox!

Thank you for your subscription

×