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L’uomo dal fiore in bocca … e non solo. La versione pirandelliana di Lavia

L’uomo Dal Fiore in bocca … e non solo. La versione pirandelliana di Lavia
Fermata Spettacolo

Entrando in sala, alla prima romana de L’uomo dal fiore in bocca al Teatro Quirino, oltre lo scuro sipario calato a celare la scena, già si intravedeva la portanza di una struttura scenotecnica studiata al dettaglio. Affievoliscono le luci di platea e finalmente si disvela il massiccio gigante nero: un’imponente sala d’attesa di una non meglio precisata stazione ferroviaria del Sud. Nove metri di struttura portante in legno di pioppo, 92 tasselli d’abete sul pavimento, un enorme quadrante ingiallito e senza lancette, i vetri anneriti di una stazione qualunque, mentre salgono dal fondo i rumori roboanti di tuoni e lo scrosciare sferzante della pioggia estiva. Lui è già lì, in un angolo, come dipinto, seduto senza grazia sulla lunghissima panca e appena illuminato da una fievole luce d’oro sporco. Solo questo basterebbe già a ripagare il prezzo del biglietto, solo questo compunto e perfetto quadro d’apertura che potrebbe accogliere fieramente qualunque storia. Ma è solo l’inizio, in quel cupo scenario animato da un uomo solitario, irrompe d’improvviso un secondo personaggio, carico di mille pacchetti sgargianti che colorano l’aria. E’ l’avventore che ha perduto il treno e l’uomo in solitaria ne raccoglie le venti coloratissime zavorre, per iniziare con lui uno strano e contorto viaggio metafisico.

Gabriele Lavia è L’uomo dal fiore in bocca

L’uomo che reca in bocca la caramella della morte e il pacifico ignavo passante, un’anima in attesa della prossima fine certa e un’altra galleggiante nel mare della convenzione matrimoniale. Ma eccoli trovarsi e si tesse la tela del discorso coi fili di quei mille pacchetti: la donna. Ecco di cosa parleranno per tutto il tempo. Questo essere misterioso e fuggevole, mostruoso e paradisiaco al tempo stesso unirà per un’ora i loro destini, mentre alle loro spalle oltre la vetrata di pece e pioggia compare ad intervalli regolari proprio una donna, tutta in nero come a lutto, sotto un grande ombrello cinereo (Barbara Alesse). Chi è? La morte? La moglie dell’uomo solitario? Forse entrambe.

Magnifica accoppiata teatrale, un Lavia in stato di grazia a cui tiene testa il bravissimo Michele Demaria, l’uomo pacifico dalla voce indimenticabile, ottimo adattamento nel rispetto del testo pirandelliano ma con inserti novellistici. Magnifiche le luci di Michelangelo Vitullo, i costumi di Elena Bianchini e last but not least le meravigliose scene di Alessandro Camera, un allestimento da oscar. Unica pecca un inizio un po’ fiacco, in cui l’attenzione dello spettatore si tiene su solo grazie a questa straordinaria stazione teatrale, personaggio a sé, destinata a restare a viva forza impregnata fra i pensieri. Bellissimo, peccato sul finale un poco smorzato da strani quanto molesti rimbombi di cassa da dance sound, forse provenienti da qualche vicino locale, poca cosa in fondo, nella testa era già entrata senza più uscirne quella nenia siciliana dalla voce sferzante di Gabriele Lavia.

L’uomo dal fiore in bocca … e non solo. La versione pirandelliana di Lavia
Fermata Spettacolo



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