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La dolce guerra e la ricerca della felicità

La dolce Guerra e la ricerca della felicità
Fermata Spettacolo

Il soldato – lo sappiamo inviato di guerra – viene colpito in pieno da un proiettile di un obice 420 dell’esercito di Sua Maestà Imperiale, sul fronte della prima guerra mondiale, la sua cinepresa, arma primitiva d’informazione di massa, si spegne e dopo qualche istante, viene lasciata al buio pure la moglie del soldato di cui seguivamo la vicenda in parallelo, la maestrina che fermamente confidava in un futuro migliore – e non è forse quello cui son condannati i giovani a credere? Sbiadite e grigie, in fondo al palco, scorrono le scontate e affaticate immagini d’una guerra inutile, anzi della più inutile, addirittura forse, di tutte le guerre, per scolorire, poi, e perdersi nell’accendersi delle luci in teatro e nell’applauso convinto che sale. Siamo all’Elicantropo, a Napoli, scena conclusiva di questo riuscito spettacolo, piccolo gioiello che in un’ora riesce a trasmettere alla platea il giusto senso d’una giovinezza impegnata che si confronta con gli eventi, di una storia, cioè, singolare e particolare – come tutte le nostre personali vicende – che inevitabilmente si tinge, al di là del voler nostro, degli stessi colori della Storia collettiva dei popoli, tra ideali che i posteri giudicheranno fertili e generatori di progresso e convinzioni apportatrici invece di distruzione e morte. La dolce guerra – quasi un ossimoro che scopriremo poi essere in realtà il retorico e falso titolo d’un film che il protagonista vorrebbe girare – scritto e interpretato da Elena Ferrari e Mariano Arenella, rientra nel programma ufficiale delle Commemorazioni del Centenario della Prima Guerra Mondiale, curato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri: un modo intelligente, se volete, di (far) comprendere la Storia e le storie, e di come quelle vadano a coagularsi in Quella, nella responsabilità di scelte personali che si fanno collettive, di cui – giuste o sbagliate – saremo chiamati inevitabilmente a render conto, perfino con la nostra stessa vita.

Ci viene raccontata, dunque, la storia di Ada: all’inizio è una giovane maestrina che sorprendiamo alla luce fioca d’una abat-jour sottolineare (a volte doppiamente) di rosso e di blu una pila di compiti d’ignorantelli alunni, ne cogliamo i pensieri divisi tra ritrosie e timidezze, da un lato, e assolute idee e inesorabili esigenze di ciò che chiamiamo giovinezza, tra l’amica blesa e ideali irredentisti e protofemministi insieme, il divino Gabriele da un lato e paroliberiste esercitazioni futuriste dall’altro; cresciuta in orfanotrofio, vive a Torino, e non è un caso, visto che in quel momento è la città italica sicuramente più proiettata verso un futuro che si presenta pieno di promesse allettanti e luminose, le più volte sognate ed auspicate magnifiche sorti e progressive, città dell’automazione e della macchina (la Fiat del modello fordiano) e dello strumento che promette d’essere (lo sarà) protagonista dell’irreversibile rivoluzione delle arti visive, il Cinema che assomma in sé la potenza della rappresentazione teatrale e il fascino dell’artifizio pittorico. Cinema che è anche – soprattutto – la gran passione dell’altro protagonista della storia, Olmo, che invece è scresciuto in una grande famiglia, ultimo d’una lunga schiera di figli, costretto perciò a disputarsi capi di vestiario coi fratelli: entrambi vivono quel particolare momento, tra il finire del secolo romantico (e di cui conserva ancora spirito e languori) e il nascere del secolo che i pronipoti chiameranno breve, forse per la velocità con cui correva, e che comunemente s’indica, quell’attimo fuggente, col nome di belle époque, mitica età dell’oro di raffinati splendori e coraggiosi entusiasmi, destinata a rovinare, come quel Titanic che è uno dei suoi più significativi emblemi, contro l’iceberg della Grande Guerra.

Inevitabile, come in tutte le storie degne d’esser raccontate, che i due s’incontrino, s’innamorino, si sposino. Viene narrata, la storia, attraverso il dirsi dei pensieri e dell’azioni loro, ininterrotto flusso di coscienza che da monologo interiore trasmuta spesso, senza soluzione di continuità, in dialogo dall’accentuato e forte sapor di verità, trapassando gli attori dalle vesti dei protagonisti a quelle dell’amica di lei e del fratello di lui, comprimari d’una storia che non conosce eroi se non quelli del vivere quotidiano, e ancora d’altri personaggi – il maestro irreggimentato, il capitano della Compagnia, la madre della bambina, il soldato napoletano insubordinato – poco più che comparse, ma utili alla costruzione progressiva d’una storia corale, grazie alla riuscita caratterizzazione d’un difetto di pronuncia, un accento dialettale, un arrochirsi sforzato della voce. E allora il giovane Olmo, costruito da Mariano Arenella, dicono gli appunti di regia, sulla figura di Giovanni Pastrone, mitico produttore di Cabiria che traghettò il cinema nostrano dall’artigianato all’industria, ha negli occhi l’entusiasmo d’una giovinezza appassionata che non conosce disillusioni fin quasi al momento finale, apprendendo il vero volto d’una guerra vissuta giù in trincea, nell’attesa angosciosa della morte nel fango, più che l’eroismo del gesto irripetibile. Deciderà di partire pur potendo evitarlo, inviato di guerra con la sua brava cinepresa, quasi fosse un gioco di pochi mesi, durante i quali spera di girare molte scene dal vero di questo combattere che, visto da lontano, sembra così innaturalmente glorioso ed esaltante, una dolce guerra, appunto, come il titolo che sceglierà di dare alla sua prima creazione, che suona, a cose fatte, tragico e cinico al tempo stesso. Ada, invece, ha fin dall’inizio nella voce che sa donarle Elena Ferrari, un accento di diversa cognizione, ben lontana, probabilmente, dall’immagine della donna della società dorata e senza pensieri cui spesso pensiamo riferendola a quel periodo, leggere dame in décolleté e delicati barboncini al guinzaglio dei quadri di Bordini e De Nittis: una sottile inquietudine vena invece la piena felicità, un presagio d’ombra come, invece, nelle giovani donne di Corcos, un accenno di consapevolezza negli occhi suoi che arriva fino a noi, oggi.

Perché all’oggi, poi, in definitiva è rivolta questa storia, e alle contraddizioni che questa nostra santa e terribile contemporaneità accompagnano: come non rivederci, tutti noi che abitiamo il nostro secolo, nell’entusiastica – forse immeditata – accettazione di slogan imposti dalla pressione sociale, nel riflettersi subitaneo delle nostre storie singole nella storia collettiva? Non possiamo fare a meno di trovar familiari, pur nell’inevitabile impallidire del bianco e nero, quelle immagini del film che viene proiettato sulla nuda parete del fondale, storie del passato che pure inevitabilmente ci riguardano, e che ricordano anche a noi, cent’anni dopo, che inevitabilmente camminiamo sull’orlo dell’abisso, di cui spesso l’abbagliar delle luci copre l’ombra scura: nelle nostre sole povere mani, come in quelle di Olmo e Ada, il nostro futuro, la nostra possibile (in)felicità.

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Fermata Spettacolo



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