Ma di là cercherai il Signore, tuo Dio,
e lo troverai, se lo cercherai con tutto
il cuore e con tutta l’anima (Dt 4, 29)
Il buio mi ha sempre affascinato; ricordo che già da piccolo mi trasmetteva un senso di mistero e sacralità che non percepivo in ambienti troppo luminosi – e, stranamente, mi dava pure un senso di sicurezza che non percepivo altrove. Ma non solo. Il buio mi riconnetteva anche a Quella percezione di finitezza e caducità delle cose che la mia personalità sin troppo entusiasta ed esuberante tende per sua natura a rifuggire.
Grazie a questi pochi anni – quasi tre – di lavoro nel movimento Darsi Pace ho potuto capire meglio perché ne ero così affascinato: il buio è l’anticamera all’esperienza di Dio. Da qui parte il viaggio iniziatico.
Concentro lo sguardo dentro di me – e cado; cado, o meglio, mi lascio cadere, quasi a strapiombo, nel mio “nulla”, in quella zona oscura dell’anima dove non sembra regnare altro che il deserto, e incontro i miei demoni, principalmente la mia vergogna e i miei terribili sensi di colpa.
Precipitato in quell’abisso, poi, che è l’unica porta d’ingresso verso l’Ignoto e il Divino, e raschiatone il fondo, dopo aver consumato il mio grido (“Il vortice non mi travolga, l’abisso non chiuda su di me la sua bocca” – Sal 68, 16), evaporo e mi spengo a tutto ciò che conosco di me nel punto del massimo dolore.
Scompaio a me stesso.
Una sensazione di soffusa dolcezza si fa strada dentro e fuori di me. Mi fermo e respiro l’atmosfera di quel luogo: tutto è quiete, come nell’occhio di un ciclone; un vuoto verginale – è qui che avviene la Creazione; qualcosa di simile alla sinuosa cadenza delle onde dell’oceano mi si affaccia alle orecchie: il ritmo arcano dell’Universo, la sua eterna pulsazione che si accorda al mio respiro.
Sono praticamente “morto” e il tempo si è fermato; tutto è sospeso come in una cripta di profondissimo silenzio.
Resto immobile in quella pace come nel ventre dell’Infinito.
È così dolce trattenersi su quella spiaggia di placida attesa. Sì, in quella morte mi sento anche al sicuro perché “preziosa agli occhi del Signore è la morte dei suoi fedeli” (Sal 115, 15). Il sepolcro è quel luogo permeato di una beatitudine (“Questo è un momento meraviglioso!”) che solitamente il nostro Io non conosce; è così che posso chiedermi insieme al salmista: “Compi forse prodigi per i morti? Si celebra forse la tua bontà nel sepolcro? La tua giustizia nel paese dell’oblio?” (Sal 87, 11-13); poiché è lì, in quel silenzio tombale, che il miracolo accade e che sorge la voce di Dio – e che ci viene offerto il piacere di contemplare la sua grandezza e il suo splendore.
Resto dunque in ascolto del moto del mare come un feto nella pancia della Madre e mi cullo al suono di un’armonia in cui ogni mia forma antica è come dimenticata alla coscienza ed ogni mio errore antico svanito via.
Allora, all’orizzonte sento che si fa strada una speranza, colorata come i primi bagliori di un’aurora, che fa da contraltare ad ogni disperazione o rimostranza con cui avevo iniziato il mio viaggio.
Un seme, per quanto piccolo, è stato gettato; il mio terreno lo ha accolto, sia pure per un istante.
Non sono più nelle tenebre, anche se tutto ciò che mi circonda sembra essere il buio.
“Qui l’anima tua posa, sposa dell’abisso, e si ridesta a me, sposa del Creatore. Non senti com’è immensa la soavità di questo momento? Sosta ancora qui con me. Ti ho purificato, ti ho provato nel crogiolo dell’afflizione (Is 48, 10), è vero; ma adesso, dopo averti atteso a lungo, ti ho ritrovato, ti stai ritrovando.
Avvicìnati e ascolta, ti dirò chi sei. Sarai una magnifica corona nella mia mano (Is 62, 3), una perla del mio diadema.
Non temere, ripudia ogni paura, perché non ha ragione d’essere. Se ci sarà un attacco non sarà da parte mia e chi ti attacca cadrà contro di te (Is 54, 15).
Io agirò in modo nuovo con te, intendo crearti nuovo.
Lasciati quindi plasmare, non fuggire; lasciati afferrare dal mio braccio, non spaventarti: la mia potenza è tua se la accogli, puoi già sentirla nel tuo corpo.
Ascoltami, ragazzo.
E se tutto fosse bello così com’è? Se tutto andasse come è giusto che stia andando? Se non ci fosse alcuna ragione di appigliarsi a un qualche lamento o rimpianto, perché in fondo tutto scorre?” – così parla una voce in me, più profonda delle stesse mie profondità. “Svegliati, è già mattino; guarda, guarda che meraviglia il cielo sgombro da ogni nuvola. Il contorno di ogni oggetto è come rifinito da un ago cristallino.
Spalanca le persiane alla brezza di primavera che sta per arrivare, lascia andare ogni zavorra del passato, respira, inala, assorbi in te a pieni polmoni l’oro diluito in queste lievi carezze di luce.
Non senti come secchi ricolmi di bionde sfumature si riversano già sulla tua terra?
Non senti come ogni filo d’erba, fronda o fiore in boccio gorgoglia di un’esuberanza che appena puoi descrivere, che ogni cosa è intrisa d’un sentimento di abbondanza?
Non senti che, se appena affini gli occhi innanzi a quel flusso santo che è la Vita, ogni tuo moto interiore più occulto si converte in canto?”.
E sia lode dunque al Fabbro dell’Eterno, al sepolcro del silenzio che s’estende fino alla radice di ogni mio vissuto momento, al Signore che urla in me, in noi, con l’intento di essere assaporato con impeto e sempre più a fondo!
E il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione (Os 11, 8e-f). Non posso che esultare in questa condizione e sentire che ogni attimo trabocca di quella passione cui anelo.
Ed è così che scopro che in quella ricca relazione con il Creatore posso vedere il mio amato buio trasformarsi in luce.
Quella luce sapiente che in questo Adesso mi ri-nomina – e che con la sua voce mi rivela a me stesso.