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INTERVISTA A FRANCESCA CAPPELLETTI " Il ‘600 è considerato un’epoca di decadenza, con questi orrendi cardinali romani che pensavano solo a portarsi via le cose"


Francesca Cappelletti si è insediata alla direzione della Galleria Borghese, nella villa che era una delle due mete delle passeggiate con i genitori da bambina. E’ una ricercatrice e una docente.

Ci racconta la sua carriera?

“Mi sono laureata alle Sapienza in Storia dell’Arte, con una tesi sul catino absidale della chiesa di S.Croce in Gerusalemme, qui a Roma. Autore dell’affresco Storia della Vera Croce è il poco conosciuto Antoniazzo Romano, che si basò sulla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine. Durante le mie ricerche ho scoperto che il committente non era il cardinale spagnolo Bernardino Carvajal, come si era creduto fino a quel momento, ma il “collega” Pedro Gonzalez de Mendoza, molto devoto della Croce. Dopo la laurea , grazie a una borsa di studio dell’Accademia dei Lincei ho trascorso un anno all’Istituto Waeburg di Londra; e un altro  anno al College de France di Parigi, per studiare il ‘600 italiano sotto la guida di Marc Fumaroli. Il suo libro L’età dell’eloquenza pone la domanda: a cosa servivano le grandi collezioni? A Stupire il visitatore, certo, con ambienti che piegavano l’animo di chi vi accedeva. Ma soprattutto a parlare, un’opera diventava il punto di partenza per scambiarsi idee. Nel ‘700 c’erano proprio riunioni codificate, riti sociali detti La Conversazione, a casa di potenti come Agnese Colonna Borghese, moglie del Principe Camillo Borghese, nel cui salotto sono passati moltissimi grand tourist dell’epoca. Dopo di che ho avuto il mio primo incarico accademico all’Università della Calabria, ad Arcavacata di Rende (Cosenza). Insegnavo Iconografia e Iconologia in un dipartimento fondato da poco, dove eravamo tutte donne, tutte fuori sede, ognuna con una formazione diversa. Con me c’erano studiose di primo piano come Patrizia Zambrano, Silvia Ginsburg, Barbara Agosti. Infine ho vinto il concorso come professore associato all’Università di Ferrara, dove insegno Storia dell’Arte Moderna, e Storia dell’Arte dei Paesi Moderni”

E’ una città importantissima per l’arte, Ferrara…

“Dopo la devoluzione del Ducato allo Stato della Chiesa, nel 1598, vi sono arrivati i legati pontifici che hanno creato collezioni proprie; tra loro, Pietro Aldobrandini e Jacopo Serra, mentre Scipione Borghese era arcivescovo nella vicina Bologna; e neanche Venezia era lontana. L’arte di Ferrara è citata soprattutto per la grandissima produzione del ‘400, il Rinascimento, la Signoria degli Estensi; il ‘600 è considerato un’epoca di decadenza, con questi orrendi cardinali romani che pensavano solo a portarsi via le cose … (ride). Certo, nel ‘600 non c’era più la corte, ma qui lavoravano Carlo Bononi, Scarsellino, Guercino”

Cosa può dirci della sua vita personale?

“Sono nata a Roma nel ’64, sono sposata con Gottardo Pallastrelli, avvocato, e ho un figlio di 19 anni, Tommaso, che studia alla Bocconi”

E’ stato difficile conciliare famiglia e lavoro?

“Il pediatra mi chiedeva “Ma lei è sicura di essere italiana?”, perché non sono mai stata una madre eccessivamente protettiva. Poi, basta non dormire… (ride). Ho sempre cercato di unire famiglia e professione: per esempio d’estate, se dovevo studiare a Londra, portavo con me Tommaso per poi “abbandonarlo” in qualche college, assieme ai figli delle mie amiche. Così facendo, riguadagnavo punti con loro, che durante l’anno magari erano andate a prendere Tommaso a scuola al posto mio. Detto questo, i due piatti della bilancia non sono mai allineati. E’ necessario fare rinunce da entrambe le parti: per esempio, i miei soggiorni all’estero non sono mai stati tanto lunghi. Come titola un saggio su Artemisia Gentileschi, è sempre un Vivere sul filo del rasoio”

Artemisia ha avuto una vita terribile…

“Sì, fino al 1611. Poi andò a Firenze dove fu la prima donna ammessa all’Accademia del disegno, a Napoli dove creò una propria bottega con uomini alle sue dipendenze. Era una donna indipendente, che lavorò sempre per mantenere la figlia, che viaggiò da sola fino all’Inghilterra per visitare il padre. Ebbe una vita di grandi affermazioni professionali, e di ricatto. Da ragazza era quasi illetterata; poi arrivò a scrivere lettere a Galileo. Il più grande torto che le si può fare è quello di vederla solo nella prima parte della vita, vittima del Tassi, nella situazione di pericolo della bottega del padre, unica donna, senza la madre. Nel suo quadro più bello, Artemisia raffigura se stessa nell’Autoritratto come allegoria della pittura. Perché Artemisia credeva nella capacità di cura dell’arte. Ed è vero: anche nei peggiori disastri amorosi, se piangi davanti a un quadro ti tiri su. Se avete dei drammi, andate in un museo! Non a caso, durante il lockdown i siti dei musei hanno registrato accesso molto superiori alle visite dal vivo in tempi normali”

Jonathan Harr l’ha definita “una donna libera, entro i vincoli persistenti di una professione largamente dominata dal sesso maschile”

“Harr è un giornalista del New York Times che scrisse su un articolo sul ritrovamento della Cattura di Cristo di Caravaggio a Dublino. Una vicenda complessa: fu venduto nel 1802 a uno scozzese, poi passò a una nobildonna che negli anni ’20 del secolo scorso lo lasciò ai padri gesuiti di Dublino. Io e la collega Laura Testa, all’epoca dottorande, avevamo rinvenuto la documentazione relativa all’opera, e Harr ci intervistò per il suo libro Il Caravaggio perduto.

Un commento alla citazione?

“Bè, non è solo questa, una professione dominata dagli uomini… Ma alla Galleria Borghese c’è stata fino a pochi mesi fa Anna Coliva, e prima ancora Paola Della Pergola. A quest’ultima si devono non solo cataloghi fondamentali negli anni ’50, ma anche un convegno del ’71, Il museo come esperienza sociale, concetto in cui io credo molto. Adesso l’idea è entrata nell’opinione comune, ma Della Pergola fu una pioniera: era andata nelle scuole e nelle periferie a chiedere che cosa la gente si aspettasse da un museo. Se le donne fanno più fatica è anche per questa idea di volere il pane, e anche le rose, e anche i cioccolatini… Da docente, all’inizio del percorso universitario vedo tantissime studentesse e pochi maschi, ma più si va avanti negli studi più diminuiscono le donne e aumentano gli uomini. In ambito accademico gli ordinari sono quasi tutti maschi. Però i numeri si stanno riequilibrando, ci avviciniamo alla parità, anche nei musei”

Che situazione la aspetta alla Galleria Borghese?

“Negli ultimi 5 anni sono stato membro del Comitato Scientifico, per cui la conosco. Qui si lavora tantissimo, anche sul contemporaneo, non solo sull’arte antica. Gli ultimi mesi sono stati duri per tutti: abbiamo rimandato diverse iniziative, dobbiamo capire come organizzarci. E con le mostre non è facile, bisogna vedere se i quadri sono ancora liberi… In programma ce n’era una di Caravaggio, ma non so dirle quando sarà”

La mostra che vorrebbe?

“Mi piace Louise Bourgeois. Le sue composizioni parlano della fragilità della memoria e della necessità di custodirla”

 L’opera che più di altre le ha cambiato la vita?

“La Cappella Contarelli, nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Una rivoluzione, tutti i pittori successivi ne hanno tenuto conto, nulla è più stato come prima. Caravaggio ha bruciato l’esistenza in pochi anni, cambiando sempre stile. I miei genitori non lavoravano nell’arte, ma ne erano appassionati. Mi portavano alla Cappella Contarelli e proprio qui a Villa Borghese”

Si è mai cimentata personalmente nell’arte?

“Nooo, mi sentirei ridicola. So fare a malapena le casette quadrate con il comignolo”

E nel tempo libero?

“Il tempo libero è molto poco. Difficile tracciare una linea tra il lavoro e il resto. Non sono una ragazza fantasiosa: nella mia vita ho studiato, letto, scritto. Però amò la danza: ho cominciato con la classica e poi ne ho praticata di vari tipi, con molta costanza”

Quali sono i suoi programmi per la Galleria Borghese?

“Vengo dall’Università, il che da un lato mi mette in crisi perché i musei li ho solo studiati, anche se sono stata vicepresidente del Consiglio Siperiore dei Beni Culturali presso il Mibact. Ma proprio perché ho un lungo rapporto con gli studenti, vorrei avvicinarli alla Galleria, e con loro il cosiddetto “pubblico mobile”, quello cioè che non ha un interesse specifico per l’arte del ‘600. Che invece è un’ottima chiave di lettura per la Roma dell’epoca: la città dei “cardinali nipoti” e del barocco, dell’antichità, dei palazzi e delle taverne. Allora, Roma era il punto di riferimento dell’arte europea. Luigi XIV fece di tutto per portare Bernini a Parigi (ci andò ma a fine carriera). Nicolas Poussin, costretto a Parigi, di Roma scriveva “Troppo sono lontano dal sole”. Altri progetti: vorrei fare un catalogo generale della Galleria Borghese, perché quello attuale è di metà del’900. E poi ricostruire un rapporto con il Giardino della Villa. Ora appartiene al Comune, mentre la Galleria è statale. Vorrei far sapere a chi frequenta il parco che esiste il museo, e viceversa, da qui organizzare visite al parco. In passato è stato fatto, con grande successo. Poi c’è il capitolo web. Non limitare la sua frizione allo stato di emergenza, ma coltivarlo con attenzione. Già il sito è molto migliorato; adesso vorrei visite virtuali con ricostruzioni degli ambienti”

All’estero sono più avanti?

“No, direi che siamo abbastanza allineati. In alcune istituzioni italiane le collezioni sono così vaste che è difficile renderle interamente fruibili; per questo vorrei mettere tutto online, con schede dettagliate, come al Metropolitan Museum di New York e alla National Gallery di Londra”

Ora ci spostiamo in Galleria: può indicarmi qualche opera che , al di là della rilevanza storica e artistica, parla all’anima?

“Cominciamo dalla Veduta di Villa Borghese di Johann Wilhelm Baur, sintesi della vita a Roma nel’600. Poi la Veduta di un porto di mare di Paul Brill, con l’emblema del pontefice sugli alberi della nave. Brill era un fiammingo arrivato a Roma nel 1574, dove rimase fino alla morte, nel 1626, mentre gli altri si trattenevano due o tre anni, per studiare. Creò una bottega importantissima. Ed Eccoci all’Apollo e Dafne , uno dei grandi gruppi scultorei di Gian Lorenzo Bernini, emblema dell’arte barocca. Impressionò tantissimo i contemporanei per come seppe dare, nel marmo, l’idea della metamorfosi. In precedenza si riteneva che la scultura avesse, rispetto alla pittura, minori possibilità di rappresentare le emozioni, per le difficoltà del marmo e l’assenza di colore. Ma guardiamo le radici che nascono dalle dita di Dafne, che preferisce trasformarsi in albero pur di non cedere ad Apollo. Ovidio, nella Metamorfosi, racconta come il Dio, nel raggiungere e toccare la ragazza, sentisse invece della pelle la corteccia il sangue che scorreva, mentre dai piedi spuntavano radici e dalle mani rami e bacche. All’epoca i cardinali stranieri criticarono il fatto che un’opera così sensuale e pagana fosse nella dimora di un “collega”, ovvero Scipione Borghese. La base della scultura riporta anche i versi di Maffeo Barberini, poeta e poi Papa, che ammonisce come chi insegua l’esteriorità si trovi poi le mani piena di bacche amare. Infine, il Bacchino Malato di Caravaggio. La Galleria Borghese ospita il maggiore numero di sue opere, ben sei. E’ un autoritratto, il primo quadro che conosciamo di lui e il primo che dipinse a Roma, dove arrivò “senza recapito e senza provvedimento”, anche se studi più recenti dicono che si è appoggiato a conoscenti della famiglia della madre. E’ un quadro piccolo, di quelli fatti per vendere. Caravaggio ebbe una vita turbolenta, con risse e ferimenti: il nome Bacchino malato fu dato da Roberto Longhi, e le labbra violacee, il colorito grigiastro, l’aria emaciata fanno pensare che l’autore si sia ritratto, convalescente, dopo uno di questi episodi”

E’ questa l’arte che ama?

“Sì. Il momento maturo mi appassiona meno di quello in cui l’artista cerca la strada. Mi piace l’arte quando è in salita”



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