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“Quadara sacra”. La festa di San Giovanni e la valenza del rito delle fave

Mentre per le strade di Castelbuono si accendono i fuochi delle “quarare” di San Giovanni e iniziano i preparativi per la festa, rispolveriamo dal nostro archivio un articolo tratto dalla rubrica “Comi a Festa da Santuzza” scritto dall’antropologo castelbuonese Angelo Cucco. Un’interessante lettura sul culto di San Giovanni con particolare riferimento alle usanze tradizionali castelbuonesi.

Buona lettura e buon San Giovanni!


La cultura siciliana riconosce in San Giovanni Battista qualcosa in più della semplice figura religiosa. Già Pitrè ci mostra come, in diverse zone della Sicilia, egli sia legato alle pratiche divinatorie(così come le anime decollate di cui è il “principe”) o a particolari amuleti e pratiche di medicina popolare.  La data della festa non è casuale, quasi coincidente con il solstizio estivo segna un passaggio importante per l’anno solare e agrario: in molte feste di San Giovanni, specialmente nella notte,  si usa accendere fuochi, consumare cibo ritualmente, tramandare sortilegi e scongiuri .

Anche Castelbuono, come del resto le Madonie,non tralascia di celebrare la data solstiziale. La festa ha origini molto antiche ma è, come dicevamo nel terzo capitolo, molto mutata nel tempo fino a perdere i connotati agricoli originari e assumere gli aspetti di una sagra.
Anticamente la festa era preceduta dalla solenne novena che si celebrava alla Matrice Vecchia.  Come tutte le altre feste del paese, anche quella di San Giovanni prevedeva l’intronizzazione del simulacro e il pubblico pellegrinaggio (ì viaggia).

Il Santo godeva di una particolare devozione dei contadini, i quali vi si rivolgevano nei bisogni legati alla fertilità della terra e che lo festeggiavano tra agosto e settembre nella chiesetta di campagna. La festa di giugno si inseriva inoltre nel periodo della mietitura.

Altro tocco di colore che la festa religiosa assumeva era il dono al Santo di garofani rossi (perché martire) e bianchi (perché puro) e la particolare devozione dei San Giuvannuzzi: bambini vestiti come San Giovanni, molto probabilmente per voto fatto dai genitori. Essi indossavano una pelle di pecora fatta a tunica o, in mancanza di questa, una stoffa bianca, in mano reggevano una croce fatta di canne. Aggiunte all’abito potevano essere i cartigli ricamati con le parole (ecce Agnus Dei), raggiere, coroncine di garofani o edera.  Alcuni dei bambini conducevano con sé una pecorella o un agnellino e una ciotola (forse in riferimento all’affresco della chiesa). Alcuni una candela, altri zaareddi (nastrini colorati) appese alla croce.

La signora Giuseppa Mancuso offriva una preziosa testimonianza: questi bambini raccoglievano la cera e le offerte per il Santo formando una sorta di piccola frottola (piccole frottole di quartiere come ricorda anche la signora Santa Mazzola). Questa questua consentiva anche la raccolta della legna e delle fave che, la sera del 24, si sarebbero consumate collettivamente. Come spesso accade nella ritualità siciliana infatti, vi era una circolazione dei beni offerti e collettivamente ri-consumati.
Per strada, infatti, o meglio in ogni strada si armava a quadara, ossia si bollivano le fave (poi anche le patate) dentro grandi pentoloni. Ma questo rito andava oltre il semplice cuocere del cibo. Infatti vi era una preparazione meticolosissima a monte. La gente organizzava per giorni, costruiva l’altarino al Santo o l’arco con l’Immagine circondata d’edera e garofani, raccoglieva la legna e le fave, preparava la zona per i musici. Era un lavoro comunitario che impegnava l’intera strada e che rinsaldava i legami di vicinato. Davanti all’altarino o all’Immagine del Santo si recitavano (forse anche nei giorni precedenti la festa) i raziuneddi di San Giovanni, le divuzioni, le preghiere proprie e si cantavano antiche cantilene, tra cui un cuntu i San Giuvanni accompagnandosi con gli strumenti musicali degli artigiani quali mandolino e friscalettu. Anche i bambini erano coinvolti in questi momenti di religiosità, gestiti in particolar modo dai devoti del Santo. La sera di San Giovanni si viveva allegramente, mangiando, bevendo e ballando. Quando il fuoco andava spegnendosi, nei gruppi più briosi si arrostiva la salsiccia o la carne e i giovani (un po’ ebri) saltavano i carboni ardenti.
L’accensione dei fuochi la notte della Natività del Battista è un uso molto antico e diffuso in tutta Europa, ciò fa supporre che vi sia una correlazione, come prima dicevamo, con il solstizio d’estate, tuttavia la giustificazione che dell’uso si dà nel comune madonita è che sia un ricordo del sacrilegio che Giuliano l’Apostata compì facendo bruciare le ossa di San Giovanni. Il consumare comunitariamente le fave, interpretato dai castelbuonesi come ringraziamento al Santo, è un uso propiziatorio, un consumo rituale per stimolare un’abbondanza futura, proprio per questo abbiamo voluto titolare questo post “la quadara sacra”, sottolineando lo strettissimo rapporto che intercorre tra l’atto di offrire, cuocere e ridistribuire fave (e cibo) e il suo aspetto sacrale che vuole perpetuare (propiziandolo) il raccolto prossimo.

Grande importanza, all’interno della festa, rivestiva il rito del comparatico e del commaratico. Si può dire che ne era il vero fulcro.  A Castelbuono esistono tre tipi di cumpari: quello di coppula o birritta(battesimo), quello d’aneddu (matrimonio) e ù cumpari i San Giuvanni. È proprio quest’ultimo il vincolo più sacro che si possa stringere. Il vincolo più sentito, che lega a vita e con una forza indissolubile. Tramite una formula si diveniva compari (tra uomini) o comari (tra donne), praticamente era un presentare la propria amicizia, tramite San Giovanni, a Dio stesso. Una specie di Sacra unione.

Diverso il rito tra uomini e donne.

I primi, vestiti a festa, usavano regalarsi un garofano rosso a vicenda.
Uno dei due inizia e chiede ” chi fa ni facemu cumpari?” e se l’altro risponde in maniera affermativa gli dà il garofano rosso, poi continua ” allura cumpari?” e l’altro annuisce di nuovo e dona il proprio garofano.

Insieme aggiungevano

“cummari e cumpari cù piricudddu quanni manciu un vogghiu a nuddu a finuta di manciari voghino tuttu i me compari pili d’or pili  d’argenti compari ora e pi sempri cumpari ì San Giuvanni  cumpari tutti l’anni ‘nzocch aviimi ni spartiimi chiddu c’ammanca l’attruvami, VIVA SAN GIUVANNI!”.
Dopodiché s’abbracciavano e mangiavano insieme le fave. Da quel momento il compare diventa un vero familiare.

Tra le donne vi erano diversi usi per stringere commaratico, ricordiamo ad esempio il bere un sorso d’acqua salata dallo stesso bicchiere proclamandosi cummari, il mangiare un frutto recitando un Credo, il ripescare un anello nell’acqua salata.

Ma il rito più diffuso era quello del capello. Le due si strappavano un capello e li intrecciavano insieme facendoli confondere, poi li buttavano via dicendo: “pilu piliddu vattinni o mari mi saluti a ma cummari mi saluti a cchiù bedda cu la cruna e la zagaredda”.

Di grande rilievo durante la festa di San Giovanni era il lato magico, si era soliti soprattutto cercare prognostici. Per esempio sul sesso di un futuro bimbo. Il rito era semplice. Presa una fava cruda, la donna gravida, la buttava all’indietro: se il primo a passare dopo l’atto era un uomo il bimbo sarebbe stato maschio, se era una donna sarebbe stata femmina. La prova andava ripetuta tre volte.

Prognostici si cercavano di cogliere anche sul raccolto e sulla vita in generale: chi ad esempio, tra le fave crude ne trovava una bordeaux (detta fava Sant’Anna) avrebbe avuto un periodo di grande abbondanza.
Altro rito di divinazione era quello dei piluseddri.  Ho reperito due diversi modi di compiere il rituale: la prima modalità consiste nel preparare tanti bastoncini di legno con attorcigliato una striscia di carta tagliata  molto stretta di cui rimangono solo pendenti i due capi. Una volta costruito,  u piluseddru si impugna (uno o più di uno) e, chiesta prima la grazia per l’anima (razia di l’arma), si esprime mentalmente la grazia per cui si sta compiendo il rito. Segue un gloria al padre e una preghiera rivolta al Santo. Subito dopo, si prendono i due estremi di carta e si prende a tirare: se la carta è sciolta ( o è spezzata in due) la cosa chiesta avrà luogo.
Altra modalità di piluseddu prevede l’uso di spago e di un chiodo. Si  pianta un chiodo su  una parete di casa, preferibilmente con un immagine del santo, e vi si attorciglia dello spago. per tutto il tempo della novena di San Giovanni lo spago va bagnato accuratamente: se il giorno della festività lo spago srotolato risulterà rotto o pronto per rompersi la grazia sarà accordata.

Nella notte di San Giovanni, così come nella notte di Natale, era inoltre possibile tramandare le antiche formule per le varie malattie (come  suli, ucchiatura, scanti, virrmi, criu) senza il rischio di perdere l’efficacia .
Chi poi voleva ciarmiri i viermi con successo doveva (e alcuni lo fanno ancora) prendere un verme e nella notte o nel giorno di San Giovanni schiacciarselo tra i palmi delle mani.

La festa oggi è molto cambiata, la chiesetta di San Giovanni fuori le mura, dopo il recente restauro, è divenuto il centro della festa religiosa ma ha anche accolto i quadari  e il ballo.

La Pro Loco, ha voluto valorizzare questa festa che rischiava di scomparire e ha deciso di distribuire gratuitamente le fave a tutti coloro che ne facessero richiesta. Nonostante ciò i comitati di quartiere sono sempre più rari. Il loro posto è stato preso dai bar e i ristoranti che, tuttavia, cercano di ricreare l’ambiente della festa rionale, non facendo mancare le fave gratis, la musica e spesso l’immagine del Santo.
Negli ultimi anni  la Pro Loco ha anche riscoperto  gli antichi usi del comparatico e lo ha incentivato inventando “l’attestato di compari”, ponendo certo l’attenzione su questo costume ma, forse, facendogli perdere un po’ della magia , dell’intimità e del riserbo che lo avvolgeva.
Essendo diventata una sagra turistica, spesso affollata, hanno fatto la loro comparsa anche i gruppi folk, gli stand gastronomici e spettacoli di diverso genere. Si è anche organizzata una cena completa all’aperto con prodotti tipici castelbuonesi e i bar hanno provveduto a predisporre  barbecue in strada, tutti segni dei tempi che cambiano e di un rito che si evolve perdendo a poco a poco i suoi caratteri tipicamente agro pastorali.

BIBLIOGRAFIA

  • Buttitta I., 2002, Il fuoco. simbolismo e pratiche rituali, Palermo, Sellerio editore
  • Buttitta I., 2006,I morti e il grano, Tempi del lavoro e ritmi della festa, Roma, Meltemi
  • Buttitta I., 2008, Verità e menzogna dei simboli, Roma, Meltemi
  • Giallombardo F., 2003, La tavola, l’altare e la strada, Palermo, Sellerio Editore
  • Guggino E., 2006, Fate, sibille e altre strane donne, Palermo, Sellerio Editore.
  • Lanternari V. 1983,  Festa, carisma, apocalisse, Palermo, Sellerio Editore.


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