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"Ipnagogica" di Christian Sartirana, cinque racconti magistrali

(di LUCA RAIMONDI) - Lo dico subito, per esser chiaro. Ipnagogica di Christian Sartirana, edito da Acheron, è uno dei migliori libri horror prodotti in Italia negli ultimi anni. Purtroppo non è un romanzo: dico purtroppo perché se l’horror nostrano non gode dei favori commerciali, ancor meno ne gode la formula della narrativa breve. Ovviamente la speranza è sempre che i racconti e il genere horror smettano di essere ostracizzati rispetto ai romanzi e al più popolare genere giallo (genere che tuttavia, appena un ventennio fa, a parte poche eccezioni era relegato nelle edicole o nelle bancherelle dei remainders e quasi del tutto ignorato dalla società letteraria, come a dire che i gusti del pubblico sono sempre piuttosto elastici). In questo caso i racconti sono anche pochini, appena cinque, e di conseguenza rimarrà deluso il lettore che acquista libri con l’idea di usarli per non far sbattere le finestre quando c’è corrente d’aria. Questa essenzialità è però sinonimo di qualità, personalmente adoro gli scrittori essenziali, che scelgono poche e ben calibrate parole. Se ogni tanto Christian esagera con gli avverbi, per il resto si avverte una grande cura e una grande eleganza di struttura e stile, già evidente nel primo, e più lungo, racconto, La manina. Il protagonista si chiama Danny, proprio come il bambino biondino di Shining, ma non ha alcuna luccicanza che gli permetta di vedere spettri intorno a sé, è piuttosto chiamato “Manina” per via di una malformazione alla mano sinistra, handicap con cui convive piuttosto male, anzi, non riesce proprio ad accettarlo, e la sua salute psichica sembra risentirne. Non è peraltro l’unico suo problema, Danny emana infatti un odore sgradevole che richiama addirittura quello dei defunti e possiamo solo immaginare (Christian non entra in tali dettagli) cosa provi una certa Clara nel momento in cui lo bacia. Intorno Danny fioccano storie e storielle, spesso finalizzate a risate di scherno, ma lui sembra superiore, sembra esserci abituato. Ciò non toglie che a un certo punto cominci a valutare l’ipotesi di un’amputazione, di una rimozione chirurgica del problema. Il suicidio della madre e la consequenziale depressione del padre, che si attacca alla bottiglia del vino, inizialmente distraggono Danny dal suo proposito, ma non per molto... di quanto segue non anticipo nulla per non guastare il piacere della sorpresa, ma se il titolo La manina vi ha ricordato il quasi omonimo film di Oliver Stone (La mano appunto), diciamo che se da un lato il riferimento non pare essere del tutto casuale, dall’altro lo sviluppo del racconto sembra guardare più a Cronenberg e alle sue mutazioni della carne. Per rimanere in ambito letterario, un riferimento obbligatorio è Ramsey Campbell e al suo racconto Le mani, pubblicato sull'antologia "Profondo horror" (Bompiani, 1978), in cui gli arti assumono una connotazione scomoda e inquietanti, tanto da creare nel protagonista una situazione che via via si fa sempre più peradossale.
La manina è esemplare per stile e costruzione narrativa, mai propenso a inutili digressioni, secco e tagliente come i racconti di Stephen King degli esordi, quelli contenuti in A volte ritornano per intenderci, e di King non si può non notare qualche reminiscenza di Carrie, più che dello Shining evocato dal nome del protagonista. Un’attenzione particolare insomma per gli esclusi, i discriminati da una società che non ha alcuna empatia o pietà nei riguardi del diverso, a dispetto di una certa retorica buonista che evidentemente scivola sulla pelle dei più.
E gli altri racconti? La voce narrante di Una collezione di cattiverie mette subito a proprio agio il lettore e presenta, grazie anche a dialoghi realistici, una situazione di assoluta ordinarietà. Pian piano, con finezza, insinua inquietudine, rivelandosi un esercizio di stile magistrale, così come i brevi ed efficaci La porta e Le facce bianche, dove fin dall’inizio si avverte che “qualcosa di sinistro sta per accadere” e l’incedere rapido innalza la tensione al massimo nel volgere di poche righe fino a sfociare in un finale tanto aperto quanto sottilmente perturbante (come ne La porta) o più esplicito e altrettanto soddisfacente (Le facce bianche). Un grande sfoggio di tecnica che culmina nel racconto finale, La memoria della polvere, dove anche la location ha il suo peso nel costruire un’atmosfera suggestiva. Siamo infatti dalle parti di Casale Monferrato (dove Sartirana ha avuti i natali) in una zona poco frequentata a causa di un incidente causato da uno stabilimento industriale. Una sorta di “quartiere fantasma” ricco di dimore abbandonate. Un posto insomma in cui possono prosperare una storia gotica che, tra boschi, case infestate e vecchi carri funebri di prammatica, propone anche un matrimonio in crisi (“Serena non aggiunse altro e si limitò a ignorarlo, finché, durante uno stacco pubblicitario, si alzò e andò in camera da letto. Filippo non la seguì, e quella notte dormì sul divano” o ancora “Guardavano la televisione in silenzio sul divano e ogni tanto, quando capitava, facevano l’amore, ma in modo piuttosto distaccato, quasi impersonale. La casa era sempre più sporca, piena di polvere che sembrava sommergere tutto”). Insomma, ti aspetti qualcosa alla Lovecraft e, un po’ come del resto accade anche leggendo Una collezione di cattiverie, a tratti ti ritrovi dalle parti di Carver: e quando gli archetipi dell’horror riescono a saldarsi con la buona letteratura e la prosa più raffinata, ecco che l’esperienza del lettore è paragonabile, come in questo caso, a una splendida festa (“di morte”, direi, giusto per il piacere di citare il primo titolo italiano di Shining). Ma il puro e duro appassionato di storie del terrore non tema: basta a Christian una sola frase (“La casa si stava lentamente trasformando”) per inviare al lettore una bella scossa elettrica.La memoria della polvere, in particolare, sembra avere la complessità di un romanzo e sarei tentato di chiudere auspicando un futuro romanzo di Sartirana che forse non è poi così necessario: non so cosa ne pensa l’autore a riguardo, ma se in generale il racconto non dovrebbe mai avere alcun complesso di inferiorità rispetto al romanzo, questo è particolarmente vero nel caso del genere horror, che da sempre vive e prospera anche sotto forma di narrativa breve.
In ultima analisi ritengo Ipnagogica un piccolo, grande libro, piccolo nelle sue dimensioni ma grande nella sua rigorosa tecnica. Privo di orpelli e ben confezionato, è un acquisto obbligatorio per chiunque abbia voglia di leggere delle buone storie horror italiane e di scoprire le potenzialità di un autore da tenere d'occhio.


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