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VI AMO ANCORA – Racconti per ingannare il tempo

VI AMO ANCORA

Racconti per ingannare il tempo

Iannozzi Giuseppe

MALEDETTO GEPPETTO!

Come al suo solito, Geppetto avrà fumato troppo, eppur lo sa che alla sua età i neuroni bruciano che è una bellezza. Dovrebbe proprio smettere, ma è ostinato. Tanto ostinato. Un giorno l’ho sorpreso che si fumava l’abbecedario di Pinocchio. Quel povero burattino c’è rimasto secco: mai più avrebbe immaginato il suo caro nonnetto in quello stato  così tanto sconcio, gli sono praticamente mancate le parole in bocca. Ha cercato indarno di tirare una smorfia sulla faccia di legno, ma niente, nemmeno l’accenno d’un’ombra. Triste quanto può esserlo solo un burattino cui son stati tagliati i fili, s’è accasciato a terra ed è rimasto davanti al suo creatore tutto avvolto dal fumo.

Non è servito né il Grillo Parlante né la Fatina a farlo rialzare. Esasperato il Grillo Parlante ha gettato la spugna, ha polemizzato con Geppetto saltandogli sul naso, puntandogli subito una zampetta contro, perché l’accusa venisse così sottolineata in maniera inappellabile: “Tu, Geppetto, non hai forse visto che hai fatto a questo burattino?” E quello, senza scomporsi, tirando bene il fumo e sputandolo fuori in una nuvola grigia e grassa, ha parlato e ha quasi messo al tappeto il Grillo: “Quel pezzo di legno! Meglio sarebbe stato se mai l’avessi pensato. E’ il frutto del Diavolo, d’un momento brutto di sbandamento che anch’io mi son creduto Dio. E invece ero sotto il possesso di chissà quali infernali forze.”
E il Grillo, rattristato e senza argomenti: “Ma è pur sempre quel figlio che tu hai creato. Che importa allora che sia venuto dal Bene o dal Male? Che importa più, ora che è tuo e ti chiama nonnetto?”
“Importa, eccome. Posso forse dire che sia il frutto dei miei lombi? Ho forse giaciuto con una donna, ho forse atteso nove mesi la sua nascita? Ha forse ricevuto la prima poppata dalla madre? No. E’ solo un pezzo di legno e io ho ogni diritto su di lui, anche quello di spinellarmi il suo abbecedario.”
La Fatina ha tentato di guardare negli occhi di Geppetto, ma subito ha dovuto distogliere lo sguardo tanto forte era l’odio covato in quel vecchio volto scavato.
Reggendosi l’un l’altro sono usciti, lasciandosi alle spalle la bottega del falegname con dentro un Pinocchio più morto che vivo e quel povero diavolo di Geppetto.
Fuori trovarono ad aspettarli il Gatto e la Volpe.
Si salutarono con un impercettibile segno del capo e tutti insieme, senza fiatare, s’avviarono lungo la strada in cerca d’un’altra favola.

ANTROPOFAGI E TERATOMI

Dopo la Terza Guerra Mondiale, dopo lo sgancio delle atomiche, la popolazione mondiale è stata ridimensionata. Prima si era in sei miliardi, oggi i sopravvissuti sono poche migliaia. Milioni di persone non ce l’hanno fatta a vedere l’alba del giorno dopo la bomba H; sono morti senza neanche rendersene conto, in meno d’un secondo i loro corpi sono stati ridotti a delle mere ombre, per l’eternità schiacciate contro le pareti delle metropoli disabitate.
L’umanità si è quasi del tutto annullata. La maggior parte dei neonati è affetta da malformazioni mostruose, spesse volte letali nel giro di pochi giorni o mesi; i pochi che sopravvivono sono più dei mostri che non degli esseri umani, e i pochi individui venuti su sani li chiamano i Teratomi. Sono oltremodo nerboruti, l’addome è possente seppur asimmetrico, ma le gambe sono ridicole e fragili. Non sono esseri intelligenti: solitamente hanno un cervello di poco superiore ai due etti. Sono degli idioti. La poca materia grigia che li anima è quella più primitiva e ancestrale: non ragionano, ma la loro rabbia è spaventevole, animale. In media non vivono più di venti anni.
I pochi sopravvissuti, con un corpo in carne e un cervello integro, li osservano e li sopportano perché hanno bisogno di loro: la loro morte significa carne da macellare. E’ questa la verità. Una volta che i Teratomi sono morti, i sopravvissuti mangiano le loro  carni. Sono i Teratomi a costituire la principale fonte di alimentazione per l’umanità. Per quel poco che ne è restato.
Dopo lo sgancio massiccio delle bombe, la Terra non si è più ripresa.
I Teratomi sono sterili. Nascono dai ventri delle donne: ma su cento nascituri soltanto uno è normale, tutti gli altri sono dei mostri della natura. Vengono abbandonati appena nati. Una donna che dà al mondo un mostro difficilmente sopravvive al parto. La morte d’una femmina è un evento ben più che tragico, una perdita incommensurabile per la famiglia. Si può solo sperare che il mostro riesca a sopravvivere per diventare un domani carne da macello. Non è un buon guadagno, ma è l’unico modo per far andare avanti i pochi esseri umani nati senza malformazioni visibili a occhio nudo.
Dopo le bombe, il tempo si è azzerato. E’ sempre l’Anno Zero. Ogni scienza è stata deposta. L’uomo ha dimenticato ogni arte e scienza. Non ha però dimenticato che se il mondo oggi è così, è perché a un certo punto i loro padri hanno deciso per un’ecatombe che coinvolgesse il pianeta intero.

SENZA LUCE (DOPO LA TERZA GUERRA MONDIALE)

Spengo la luce, una stupida torcia a pile.
Fuori non c’è una stella.
Un sudario di fumo ha seppellito il cielo. Non ricordo quasi più com’era il sole, ed è passato così poco tempo da quando le atomiche sono esplose.

Siamo sopravvissuti in pochi dopo la Terza Guerra Mondiale. Viviamo come topi nelle fogne.
La maggior parte di noi morirà nel giro di pochi giorni, se non di ore. Nessuno di noi
pensa di poter ridare una nuova chance all’umanità.
I tumori si sviluppano più veloci del nostro pensiero.
I morti non li seppelliamo. Sarebbe tempo perso, strappato a quel poco che ci resta.
Assistiamo impotenti alla fine.
Qualcuno ha detto che l’èra dell’uomo, come specie dominante, è finita.
Non lo metto in dubbio.
Qui, nelle fogne, è pieno di insetti, di rettili che non avevo mai visto in nessun libro.
Non sono il prodotto di una qualche mutazione genetica. Sono sempre esistiti, solo che noi eravamo troppo occupati a farci la guerra per approfondire i misteri della vita, di quella meno in vista.
Ci sono rettili che sembrano esser usciti da film di fantascienza di serie B. Sono incredibili, brutti all’occhio umano. Hanno occhi famelici, giallognoli. Sono intelligenti, è fuor di dubbio: ci osservano morire e nessuno di noi può ignorare che sono felici di vederci schiattare uno dopo l’altro.
C’è chi scopa prima di rendere l’anima a Dio. E c’è anche chi si libera dei freni inibitori per darsi a un’orgia di sangue imitando Charles Manson.
Le fogne sono un posto pericoloso. Molto. Insieme alla ricaduta radioattiva, è sempre l’uomo ad essere il peggior nemico di sé stesso.

La torcia è quasi andata. Sono stato costretto a spegnerla. Adesso il buio è totale. Potrei morire adesso, in questo preciso momento. In realtà non mi interessa. Spero solo che la morte sia veloce. La cosa peggiore sarebbe finire nelle mani di uno dei tanti pazzi assassini che infestano queste fogne nauseanti.

CHUPACABRA

“In che cosa posso esserti utile, straniero?”
La voce affettata del becchino mi trapanò il cervello prima che i timpani.
“Acqua chiara”, ordinai. “Una pinta.”
Il becchino dietro al bancone reagì all’ordine inarcando il sopracciglio sinistro: “Un ricco. Se ne vedono pochi oggigiorno.”
“Non sono quello che pensi. Solo un ladro.”
Il becchino non si scompose: “I soldi per l’Acqua chiara ce li hai. Non fa differenza.”
Posò con riverenza il boccale sul bancone, con la mano allungata pronta a ricevere il denaro.
Lasciai scivolare due monete nel palmo del becchino, che subito ritrasse la mano per nascondere i denari nella scarsella che teneva appesa alla vita: “Non ci pensare.”
“Non ci penso”, lo rassicurai: “Non amo far fuori quelli come te.”
“L’avevo capito. Volevo sentirtelo dire.”
Sbuffai. “L’avevo capito, anch’io.” Poi presi a bere, lentamente: non mi capitava spesso di bere Acqua chiara.
“Come mai da queste parti?”
“Non sono affari che ti riguardano.”
“Sei qui per…” Ma non completò la frase, aggiustò invece un ghigno maligno sul volto smunto e rugoso. “Prima o poi tocca a tutti”, sentenziò, ed esplose in una risata secca, come se nella gola gli fosse esplose una carica di tritolo.
Era odioso, ma mi ero ripromesso di non dargli corda.
“Prima o poi…”, cantilenò, e non la smise più.
Avrei dovuto assestargli un pugno in mezzo alla faccia, tra naso e bocca, e invece alla fine glielo dissi: “Sono uno di quelli, uno che non conta.”
“Sì, lo sapevo.”
“Già! Però volevi sentirmelo dire chiaro e tondo. Non ti bastava sapere che sono un ladro.”
“Esatto, volevo sentirtelo dire.” Fece una pausa, poi sparò: “Che intendi fare?”
“Quanto manca al tramonto?”
“Chi può dirlo! Potrebbe essere fra un’ora o fra dieci o chissà quando…”
“Sempre nuvoloso da queste parti.”
“Le nuvole non si fanno pregare, costituiscono uno spesso sudario da diversi anni oramai. La città ci ha fatto l’abitudine e anche gli abitanti.”
“I pochi che sono…”
“…sopravvissuti. Esatto. Non molti in verità.”
“Rende bene questa attività però.”
“Potrebbe andar meglio. Non è più come ai bei tempi.”
“Intendi dire non come nell’immediato dopoguerra…”
“Cadaveri a palate, non si faceva in tempo a seppellirne un centinaio che subito ce n’erano altri mille. Altri tempi.”
“E’ per questo che vendi l’Acqua chiara.”
“Ce n’è poca per i vivi, e i morti scarseggiano.”
“Becchino, i vivi sono una rarità!”
“Possiamo dire che è così.”
“Te la cavi bene comunque, Acqua chiara e Inumazioni, non ti puoi proprio lamentare.”
Restammo entrambi in silenzio: il becchino mi guardò dritto negli occhi, quasi volesse vedere quanto mi restava da vivere, poi distolse lo sguardo attirato da una mosca impertinente che era entrata nel locale.
“Non se ne può più di queste mosche. Una volta erano i piccioni, oggi le mosche.”
“La città è cambiata.”
“Straniero, meglio che ti guardi le spalle. Qui è pieno di chupacabra.”
“Come dappertutto. Non mi dici niente di nuovo.”
“Allora buona fortuna, ladro”, tagliò corto il becchino.
La conversazione era finita.
Gettai gli occhi proprio sul fondo della pinta: non avevo lasciato una sola goccia. Meglio così.
Uscii dal locale senza accennare né un saluto né una bestemmia.

GLI STIVALI DELLE SETTE LEGHE

C’era una volta un villaggio… Ci vivevano molti vecchi, pochissime donne e ancor meno giovani. C’era però uno scemo, il classico Scemo del Villaggio: questi si vantava d’aver ai piedi gli Stivali Delle Sette Leghe, e guardandoli, tutti dicevano che erano solo degli stivali male in arnese, messi così male che era un miracolo che stessero ancora in piedi, cioè ai piedi. A ogni modo, lo Scemo del Villaggio era più che mai persuaso che quegli stivali fossero magici e non c’era giorno che non se ne vantasse, anche se, a onor del vero, nessuno lo ascoltava più: era una storia così trita e ritrita che anche la pazienza dei più vecchi si era assopita insieme alla voglia di sfottere quel poveretto. Lo lasciavano cianciare, persino il Parroco non diceva nulla; questi si limitava a un accenno di sorriso, ma così scipito che pareva gli avessero appena strappata l’appendice dalla pancia a mani nude.
Lo Scemo del Villaggio era quel che si dice un uomo felice: era l’unico che calzava i famosi stivali. Proprio l’unico.
E i giorni passavano tutti uguali, pieni di monotonia.

Il Villaggio continuava a sopravvivere, senza che un solo evento di rilievo lo sollevasse almeno un poco dalla sua miseria.
Lo Scemo continuava a vivere felice. E fu felice, sul serio, per lunghissima pezza, perlomeno fino a quando non dovette ammettere che nessuno prestava attenzione a quegli stivali ai quali lui teneva in maniera esagerata, più della sua stessa anima. Così, un giorno, che non era né di sole né di nuvole, incontrando il Parroco sulla sua strada, al suo saluto, lui che era scemo, gli rispose in malo modo. Bestemmiò insomma. Il Parroco non batté ciglio e col breviario in mano fece per portarsi avanti col passo.
Deluso, lo Scemo lo rincorse e gli chiese spiegazione: “Nemmeno un’avemaria!”
“Figliolo, sei scemo. La Madonna non sa che farsene delle tue preghiere.”
“Ma io ho bestemmiato!”, ribatté lo Scemo più che mai confuso.
“Figliolo, la Madonna non sa che farsene delle tue bestemmie: da un orecchio entrano e dall’altro escono.”
Cocciuto più d’un mulo, lo Scemo insistette che meritava d’esser punito, ma non ci fu verso: per il Parroco era solo scemo, punto e basta.
Ben presto lo Scemo del Villaggio si rese conto che qualunque cosa egli facesse, fosse contraria anche alla Legge, nessuno gli badava. Avrebbe potuto uccidere a mani nude il Sindaco che tanto nessuno avrebbe mosso un dito per condannarlo. Quella dello Scemo era davvero una condizione miserrima: in tutto il Villaggio non c’era uno che lo considerasse qualcosa più d’uno scemo innocuo e uguale a tanti altri. Gli veniva da piangere, perché non c’era davvero altro che potesse fare. E quando un bel giorno, sotto il sole di mezzogiorno, aprì le cateratte in piazza, finalmente una vecchina gli si fece dappresso e gli offrì un fazzoletto affinché si asciugasse le copiose lacrime. Lo Scemo raccolse il fazzoletto e ci si soffiò il nasone, dopodiché lo restituì alla vecchia che, senza scomporsi, lo agguantò felice d’aver indietro ciò che era suo. Fu in quel momento che lo Scemo comprese che più di così davvero non poteva ottenere da quel Villaggio di vecchi maledetti che tutto avevano visto, insensibili oramai a ogni cosa.
Prima che fosse l’alba, quando il buio era ancora fitto, lo Scemo del Villaggio si alzò dal suo grosso grosso letto, s’infilò gli Stivali delle Sette Leghe e sacco in spalla, senza salutare nessuno, si lasciò tutto alle spalle tirando su il terzo dito.
Solo quando fu Mezzogiorno qualcuno cominciò a biasciare piano.
Verso le Tredici, finalmente, un vecchio lo disse chiaro e tondo: “Lo Scemo ha portato via le chiappe dal Villaggio.”
I vecchi in piazza presero a ridere spalancando le bocche vuote di denti.
“Dove sarà andato?”, si domandò qualcuno.
“Chi diavolo può saperlo! Quello aveva gli Stivali delle Sette Leghe, si credeva speciale. A quest’ora chissà quanto s’è portato lontano”, buttò lì uno, scaracchiando in terra.
E tutti giù a ridere di gusto.
I giorni passarono e il Villaggio rimase seppellito nella sua apatia.
Un giorno però un vecchio tirò le cuoia, così, di punto in bianco. Fu presto seppellito senza che nessuno proferisse parola.
Il giorno dopo un altro rese l’anima a Dio, o al Diavolo.
E poi un altro e un altro e un altro ancora…
Non passava giorno che un vecchio non ci lasciasse le penne. Il Villaggio stava seppellendo nell’oblio assoluto i suoi vecchi senz’anima.
La moria non s’arrestò un solo giorno.
Alla fine, ancora in piedi rimasero sol più il Sindaco e il Parroco.
“Perché sono tutti morti?”
“Le vie del Signore sono infinite.”
“Sì, d’accordo. Ma perché?”
Il Parroco rimase in silenzio per un bel pezzo. Alla fine scosse il capo sconsolato: “Non lo so. Domani, o al più tardi posdomani, però toccherà a uno di noi, e caro vecchio Sindaco, con tutto il rispetto che Le porto, in questo momento nemmeno Lei può immaginare quanto vorrei avere gli Stivali delle Sette Leghe…”.
Il Sindaco tirò fuor di bocca un lungo oh, poi tacque, preso da pensieri tutt’altro che cristiani.
Rimasero comunque insieme, l’uno accanto all’altro, in attesa e guardinghi, sfidandosi con occhiate affilate come coltelli. Ed entrambi presero a pregare Dio per avere la vita allungata almeno d’un giorno, perché, a quel punto, ognuno dei due desiderava vedere l’altro tirar le cuoia per primo.

LA VERITÀ DEL VAMPIRO

Non la amiamo la luce noi vampiri, ma non ci uccide. Nemmeno il crocefisso amiamo, ma non ci sacrifica sull’altare d’un ipotetico Dio. Posso dirlo con certezza perché sono un vampiro. Sono nato come tutti si nasce, da un padre e una madre vampiri. E nessuno di noi beve sangue.

Sono un vampiro e preferisco non aver a che fare con il Sole. Gli occhiali da sole servono e non servono, ma meglio di niente.

Non esiste un Demiurgo, uno che abbia creato l’Universo tutto con i suoi pianeti e soli, e la Terra. Uno della mia razza nasce con questa coscienza-conoscenza dentro di sé. Sa che nessuna forza superiore ha creato la vita. Essa è venuta su, per puro caso, dalla materia che è l’Universo. Uno come me sa che la materia esiste, punto e basta. Un giorno qualsiasi potrebbe benissimo cessare di esistere, ma non per colpa d’un creatore o che altro. Provate a immaginare un fiammifero con la sua testa di zolfo: ecco la materia. Sfregate la testa di zolfo su una qualsiasi superficie scabra ed ecco la fiamma, un po’ di calore che, più o meno velocemente, consuma lo stecchino di legno. Una volta che la fiamma non avrà più del legno da bruciare, la fiamma cesserà di essere. L’Universo è questo, nient’altro che questo. L’eternità è solo un tempo molto lungo che il cervello dell’uomo non riesce a intendere, ma essa ha un suo inizio e una sua fine. L’infinito uguale, ha un suo inizio e una sua fine.
Quando l’Universo cesserà di essere?
Non preoccupatevi, per quel tempo l’umanità che ha abitato la Terra si sarà estinta da migliaia di anni e così anche la sua cenere.

Le strade mi vedono sempre con gli occhiali da sole. La gente mi vede e capisce subito che sono uno da evitare. La gente non la vuole conoscere la verità ed è questo uno dei motivi per cui ancor oggi continua a sbattersi in Chiesa. Poi, una volta a casa, tutti s’impalano davanti alla tivù per il telegiornale e il solito vecchio film horror d’improbabili vampiri. E’ solo questo che rende il comune borghese felice: l’illusione.

Un vampiro viene spesso scambiato per un ateo o un materialista. La verità è che noi vampiri facciamo paura alla società perché portiamo – non senza difficoltà – di bocca in bocca la sola verità assoluta che valga la pena di sapere.

Odiamo il Sole perché lo sappiamo che, presto o tardi, si spegnerà: meglio vivere nella certezza delle tenebre che nell’illusione della luce.

Ora sapete chi è un vero vampiro. Ma voi continuerete a credere in Carmilla e Hollywood.

MAGNUM 357

Un cacciatore di taglie non ha la vita facile, potete immaginarlo, per cui bando alle ciance. Sotto un cielo di pioggia e sangue la mia Colt 357 Magnum aspettava con impazienza nella fondina che la prendessi in mano per scaricarla dei proiettili in eccesso!
Ero sulle tracce d’un vecchio bastardo, un criminale di guerra mezzo fascista, mezzo stalinista. Nessun governo sapeva quanti crimini gli si dovessero accollare, ma tutti concordavano sul fatto che andava fatto fuori. Nessuno avrebbe pianto per quel figlio di puttana.

Aleksander Chikatilo, la mia preda, non poteva passare inosservato: troppo brutto persino per sua madre. Se volete farvi un’idea del suo aspetto vi basti pensare a un orco cornuto, a un mostaccio devastato da vistose cicatrici. Questi era Aleksander, il bastardo da far fuori.
Gli sono stato alle costole per dei mesi, e alla fine l’ho beccato in un posto equivoco, in un albergo a ore. Anche un simile mostro, prima o poi, commette un passo falso.

Dà fastidio farsi beccare a letto con una puttana. Ma dà ancor più fastidio baciare la 357 e ad Aleksander gli ho schiaffato tutta la sua lunga canna in bocca, mentre sotto di lui la femmina starnazzava come una gallina a cui stessero per tirare il collo. Non era lei che m’interessava, anche se devo dire che era un gran tocco di femmina, bionda, con delle perfette morbide curve da far invidia a un angelo.
Il mio uomo gli ha staccato un pompino da paura alla mia 357 Magnum, con l’ingoio per giunta. Il suo cervello del cazzo si è per buona parte sparso sulle tette della puttana, come una gelatina strapazzata. La bionda ha avuto un attacco isterico o un orgasmo. Non so dire di preciso, ma per quanto terrorizzata potesse essere, scommetto che non dimenticherà tanto presto il brivido che le ho procurato. Per lei doveva essere la prima volta con un morto.

Ho lasciato il corpo di Aleksander Chikatilo con il suo cazzo moscio ancora ficcato nella figa della femmina, e mi sono chiuso la porta della camera del Motel alle spalle. La mia non è una vita facile, ma Dio ha creato sé stesso creando le donne e tanto fa.

LO SCRITTORE DEMENTE

Per cinquanta anni buoni aveva scritto, sempre, senza grande successo. Era uno con le mani in pasta, riusciva così a pubblicare con i più grandi editori. Gli editori lo pubblicavano perché era un soggetto pericoloso: troppi agganci politici, e mafiosi anche. Di solito stampavano una tiratura di duemila copie, non di più; però a G. gli raccontavano che del suo ultimo romanzo, per la prima edizione, erano state mandate in stampa cinquantamila copie. Regalate alcune copie ad amici e critici letterari compiacenti bene in vista, il resto delle duemila copie rimaneva invenduto, per finire in ultimo al macero. A G. gli editori gli raccontavano d’aver venduto duecento o trecentomila copie. G. gonfiava il petto felice. Per non correre rischi inutili, ci si era rassegnati a pagargli un tot, come se vendesse sul serio bene e tanto.

Il cinquantunesimo compleanno di G. fu quello del cambiamento: l’Alzheimer. La notizia fece presto a passare di bocca in bocca. Una volta che ci si sincerò che G. era andato, politici e mafiosi per primi gli voltarono le spalle. Nel giro d’un paio di mesi G. non aveva più un cane che lo spalleggiasse. Si confortava scrivendo, convinto che i suoi romanzi sarebbero rimasti nella storia della letteratura del suo paese.

Ma anche gli editori, appresa la notizia della demenza di G., subito ne approfittarono per evadere dalle sue grinfie. Il suo editore storico, quando G. venne da lui in persona a presentargli la sua ultima obbrobriosa fatica, gli disse papale papale: “Di libri se ne vendono pochi di questi tempi, bisogna fare dei tagli… Il punto è che i suoi romanzi non funzionano più come un tempo.”
G. sentì la testa girargli a mulino. Più bianco d’un cencio osò domandare: “Ma manderà in ristampa i miei vecchi lavori, almeno questo…!”
“Temo di no. Dobbiamo investire su nomi nuovi.”
”Ma io sono sempre stato la punta di diamante della E. Non potete, non potete…”
“Si consoli, non è il solo che è stato messo alla porta.”
“Io alla porta!!!”, sibilò inviperito seppur terribilmente provato nel corpo e nell’animo.
“Mi spiace. La politica della casa editrice si deve adeguare ai tempi.”
“Che significa, ‘si deve adeguare’? Non potete liquidarmi con un calcio in culo. Non potete e lo sapete.”
“Ieri forse era così. Oggi non più.”
G. non riusciva a credere d’esser stato liquidato così, come un demente.
“Non lo… non lo accetto”, balbettò, bianco da far paura persino a un fantasma.
“E’ la nuova politica. I vecchi pederasti come lei, signor G. non tirano più. E a dirla tutta non tiravano neanche ieri. I tempi cambiano, è finita.”
G. inghiottì a vuoto. Sentì mancargli la terra sotto i piedi.

L’ictus che lo colpì tenne incollato G. al letto per tre mesi buoni. Forse se lo sognò, forse no, ma quello che era stato il suo editore storico adesso pubblicava libri di ex veline, di calciatori, di cantanti persino.

Solo come un cane bastardo, G. tirò le cuoia nel suo letto, senza aver mai raggiunto i cinquantadue anni, con il culo sprofondato in una pozza di piscio e di escrementi.

FIGLIOLO!

Ieri Gesù è venuto a trovarmi e mi ha detto: “Figliolo!”
E io: “Figliolo, figliolo a me? A me? E quand’è che l’avresti conosciuta mia madre?  No, perché adesso lo voglio sapere. No, lo voglio proprio sapere.”
“Figliolo, perché?”
“E di nuovo! Non sono tuo figlio. La mia mamma tu  la lasci perdere. Non le reggo le tue basse insinuazioni, che sono proprio molto ma molto basse.”
E Gesù Cristo – con quella faccia da finto tonto che si ritrova – mi fa, così, su due piedi: “Anche tua madre è figlia mia!”
Giuro che c’ho visto rosso: “Gesù, guarda, te lo spiego una volta sola: Eyes Wide Shut è un film, un film, e tu un’allucinazione non poco fastidiosa. E non ti azzardare mai più a dire che sono tuo figlio, perché tu a letto con mia madre manco se ti mettono in Croce. Ci siamo capiti?”
Ma quello ostinato – di coccio -, ed allora mi son visto costretto, mio malgrado, a spaccargli la testa. Insomma ho dovuto difendere l’onore di mia madre; mica potevo restarmene con le mani in mano! E, alla fine, sono stato costretto a difendere l’onore di mio padre, anche se ne avrei fatto volentieri a meno, perché mio padre un po’ di ‘vizietto’ ce l’ha tutto, e non aggiungo altro. Insomma, quello parlava, parlava parlava parlava e tutti erano figli suoi a sentir lui. Quando sento che uno bestemmia – ve lo giuro sul bene che vi voglio – vedo rosso. Quello bestemmiava, parlava d’un’orgia collettiva, una cosa che manco Sodoma e Gomorra. Così son stato costretto a dargli una severa lezione di vita: ho preso una padella di quelle pesanti e glie l’ho data in testa. Non ha fatto ‘na piega. Mi è caduto fra le braccia, come un angelo praticamente. Poi è venuto il Padre, il suo, sì, Dio, e mi ha invitato in un angolo ad ascoltarlo e io, buono, l’ho seguito.
“Senti, perdona mio figlio. Troppo canne… Tu mi capisci… Sei stato giovane pure tu.”
Vedendo quel Padre afflitto, ho finto di capire. Insomma – e che diamine! un po’ d’umana pietà ce l’ho pure io, per la miseria! – gli ho dato una pacca sulla spalle, ma precisando: “Come lui, mai. Dio me ne scansi.”
E’ stato molto comprensivo e solo ha ribattuto: “Non posso darti torto. Tu pensa che ogni Santo Natale vuole che gli regali una Croce nuova per la Pasqua che verrà. Io non lo so mica per quanto lo reggo ancora! Mi ha salassato. Sono lo zimbello dei Cieli per colpa sua. Lui e ‘sta fissa del Figlio in Croce.”
E io, magnanimo: “Ti capisco. Dio mio, se ti capisco.”
E lui: “Tu menti.”
E io: “E’ così evidente?”
E lui: “Sì.”
E io: “E’ grave?”
E lui: “No. Mio figlio quando mente – e mente tanto assai – le spara decisamente più grosse. In tal senso si lavora dei veri miracoli. Un egocentrico che non ti dico.”
Ci abbracciamo proprio come padre e figlio. Mon Dieu!
Dio si prende il Cristo e se lo porta via con sé; e mentre se lo porta lontano lontano, io vedo, io glie lo vedo… E non posso fare a meno di tirare fuori un’imprecazione: “Porco diavolo, quello manco c’ha le mutande! Che razza di esibizionista.”



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