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I retroscena delle grandi manovre geopolitiche ed economiche nello scacchiere internazionale

Intervista a Demostenes Floros

https://mysterionweb.wordpress.com/

Mysterion si arricchisce di un nuovo spazio di approfondimento che affronta le più importanti questioni geopolitiche ed economiche odierne. L’intervista che segue è stata rilasciata qualche settimana fa (prima Delle elezioni europee) ad un giornale tedesco, il “Deutsche-wirtschafts-nachrichten”, dall’esperto di geopolitica Demostenes Floros, il quale l’ha gentilmente concessa al nostro blog. In Italia soltanto la nostra rubrica e la pagina Facebook di Pandoratv.it di Giulietto Chiesa pubblicano questa preziosa intervista (l’originale in tedesco si può trovare attraverso il seguente link: https://deutsche-wirtschafts-nachrichten.de/2019/06/12/peking-wird-sich-dem-druck-des-weissen-hauses-nicht-beugen/). Senza rivelare i particolari dell’articolo mi permetto di fare una breve e personale considerazione sul tema qui sotto discusso in rapporto alle grandi manovre storiche che si stanno sviluppando, e delle quali questo contributo può offrire una chiara, lucida e importante chiave interpretativa dei rapporti di forza all’interno dello scacchiere internazionale, e inoltre anche un utile spunto di riflessione. L’oggetto di questa intervista, a mio avviso, va inserito in un contesto più ampio che tenga conto dell’importantissimo mutamento tecnologico a cui sta andando incontro il Pianeta e in particolare l’Occidente, e va legato ad uno scenario più strettamente militare molto pericoloso che ha fatto rinascere una nuova corsa agli armamenti nucleari. Per farla breve, stiamo attraversando una crisi gravissima e senza precedenti e alcuni delle riflessioni e dei fatti riportati sotto possono aiutarci a capire in che direzione e verso stiamo andando. Buona lettura.
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Gli Stati Uniti d’America hanno vietato a tutti gli altri paesi di acquistare petrolio iraniano. Quale leva hanno gli USA per far rispettare tale divieto?
In primo luogo, è opportuno precisare che le sanzioni comminate all’export di greggio iraniano a partire dal 5 novembre 2018 sono misure imposte unilateralmente dagli Stati Uniti e non dall’ONU quindi, non rispecchiano le norme del diritto internazionale.
Non sussiste alcun dubbio in merito al fatto che gli USA possono esercitare su chiunque pressioni di natura commerciale, economica, politica, finanche militare, nel caso in cui lo ritenessero necessario. Infatti, nonostante i rapporti di forza a livello globale stiano volgendo da un contesto unipolare ad uno tendenzialmente multipolare, sono ancora pochi gli Stati che godono di una reale sovranità nazionale, precondizione necessaria onde opporsi agli interessi statunitensi ogni qual volta quest’ultimi non collimano con quelli della propria nazione.
A tal riguardo, è particolarmente interessante analizzare il comportamento che hanno tenuto i sette paesi (sarebbero otto con Taiwan, ma lascerei quest’ultima da parte, nella misura in cui meriterebbe una trattazione a sé) ai quali gli USA hanno concesso una deroga all’import di greggio iraniano della durata di sei mesi (scaduta il 2 maggio 2019). In particolare, mi riferisco a Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Italia, Turchia e Grecia.
Dei tre paesi europei – tutti membri della NATO – l’Italia e la Grecia non hanno ritenuto di dovere usufruire delle deroghe e hanno sin da subito azzerato le rispettive importazioni di Petrolio iraniano. Tale decisione politica è stata fortemente stigmatizzata da Teheran. Al contrario, la Turchia di R.T. Erdogan – il cui esercito è il secondo per importanza all’interno dell’Alleanza Atlantica – ha continuato ad acquistare greggio dall’Iran anche dopo la scadenza del 2 maggio 2019, mostrando una maggiore autonomia politica rispetto a Italia e Grecia. Di contro, gli attacchi speculativi subiti dalla lira turca nel corso degli ultimi mesi sono stati uno dei prezzi che Ankara ha dovuto pagare (pressioni finanziarie).
Giappone e Corea del Sud sono tra le principali economie acquirenti di crude iraniano. Esse desiderano approvvigionarsi da Teheran, ma le pressioni USA – supportate da basi militari e truppe di stanza sul territorio giapponese e sudcoreano – sono molto forti. Donald Trump dovrebbe prestare particolare attenzione a due aspetti. In primo luogo, il tema della “riconciliazione” tra le due Coree: esso è molto sentito dall’attuale governo di Seoul che sempre meno tollera le ingerenze statunitensi. In secondo luogo, la Cina è attualmente diventata il primo partner commerciale del Giappone. Nei fatti, gli Stati Uniti non possono più imporre la loro volontà in estremo Oriente come avveniva nel contesto della Guerra Fredda, pena l’ulteriore avvicinamento della Corea del Sud e del Giappone verso Pechino e Mosca (il recentissimo incontro tra Kim Jong-un e Vladimir Putin, così come quello a settembre 2016 tra Dmitry Medvedev e Shinzo Abe sono dei chiari segnali).
Infine, i due principali importatori di petrolio iraniano rispettivamente, la Cina e l’India. Quest’ultima, nonostante non esprima ancora un rapporto di forza tale da potersi opporre alle pressioni statunitensi, ha apertamente espresso il proprio disappunto sulla vicenda. Inoltre, nel corso degli ultimi mesi, New Delhi, ha proseguito nell’acquisto di petrolio venezuelano, anch’esso sotto sanzioni USA – facendo così infuriare il Consigliere per la Sicurezza Nazionale USA, John Bolton, il quale, a proposito di minacce, twittò il 12 febbraio scorso: “le nazioni e le imprese che sostengono il furto delle risorse venezuelane da parte di Maduro non saranno dimenticate”. Pechino invece non ha alcuna intenzione di accettare passivamente le pressioni della Casa Bianca soprattutto, da quando è diventata la principale importatrice di petrolio (e gas naturale) al mondo (rispettivamente, 2017 e 2018).

Se il petrolio iraniano non sarà più disponibile, il prezzo del barile aumenterà?
Nel caso in cui venisse meno tutto l’export iraniano, il barile potrebbe aumentare di prezzo. Insieme alle tensioni geopolitiche concernenti la Libia e il Venezuela, esso è indiscutibilmente uno dei principali fattori rialzisti presenti nel mercato. Tra i fattori ribassisti invece, abbiamo l’incremento delle scorte negli USA, l’aumento della produzione statunitense dovuta al fracking – nonostante nutra parecchi dubbi in merito alla sostenibilità produttiva, finanziaria e ambientale di tale tecnica estrattiva – e lo scontro commerciale in atto tra Stati Uniti e Cina, i cui effetti potrebbe influenzare negativamente la domanda globale di greggio.
E’ necessario attendere la riunione dell’OPEC+ del prossimo 30 giugno 2019, durante la quale i paesi produttori decideranno se estendere o meno l’accordo raggiunto il 7 dicembre 2018 (-1.200.000 b/g). Ad oggi, l’impressione è che la Federazione Russa desideri allentare i tagli precedentemente stabiliti.

Gli Stati Uniti saranno in grado di danneggiare economicamente l’Iran, provocando un cambio di regime? In tal caso, la Russia e la Cina sosterranno Teheran economicamente e, se fosse necessario, anche militarmente?
Da tempo, la Federazione Russa supporta militarmente l’Iran, avendolo dotato (così come è avvenuto pure per la Siria e la stessa Turchia) di una serie di armamenti di difesa estremamente sofisticati. Questo è uno dei motivi per cui Israele è restia nell’intraprendere l’opzione militare.
Fatta questa debita premessa, ancora una volta l’energia può fornirci una chiave di lettura utile anche in campo finanziario e commerciale. Per fare ciò, è importante analizzare le probabili contromisure che potrebbe adottare la Federazione Russa, attualmente divenuta il vero ago della bilancia del mercato petrolifero, dopo la vittoria ottenuta nella guerra in Siria. Facciamo un piccolo passo indietro. Il 30 novembre 2016, l’OPEC+ ridusse il proprio output di 1.800.000 b/g con lo scopo di incrementare i prezzi del barile, al tempo sotto i 50 $/b. Tale accordo durò sino a giugno 2018, ottenendo risultati piuttosto positivi per i produttori. Nello specifico, l’OPEC decise di tagliare le estrazioni di 1.200.000 b/g, fissando il proprio tetto produttivo a 32.500.000 b/g, mentre i produttori non-OPEC – capitanati dalla Russia – diminuirono l’output di 558.000 b/g. L’implementazione di tale intesa da parte dell’OPEC+ segnò la fine della precedente strategia dell’OPEC che era stata fortemente voluta e perseguita dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati nel Golfo a partire dal 30 novembre 2014. In particolare, essa consistette nell’inondare il mercato petrolifero di greggio con l’obiettivo di fare crollare i prezzi, espellendo dal mercato i produttori con alti costi e mettendo in crisi gli Stati aventi un alto pareggio di bilancio fiscale come l’Iran che in quel momento si trovava sotto il precedente regime sanzionatorio USA (presidenza Obama) e l’embargo petrolifero dell’UE. L’entrata della Federazione Russa nella guerra in Siria il 30 novembre 2015 in favore del Presidente Bashar al-Assad modificò radicalmente i destini del conflitto, determinando anche il sopracitato accordo dell’OPEC+ del novembre 2016, il quale escludeva l’Iran dai tagli in virtù di una esplicita volontà politica imposta dal Cremlino all’Organizzazione dei Paesi Esportatori.
Per queste ragioni, è difficile immaginare che la Russia – la quale ad oggi ha fissato il proprio budget statale a 40 $/b e sta quindi incrementando significativamente la propria rendita – abbandonerà l’Iran al proprio destino senza supportare il prezioso alleato nella regione come pure nel conflitto siriano. Al contrario, è più probabile che la Russia supporti l’Iran nel trovare intermediari che favoriscano l’esportazione del greggio persiano. Non sarà un caso se pochi giorni fa Putin ha dichiarato che alla fine il mercato eviterà il deficit da petrolio iraniano e che l’Iran dovrà comunque essere ancora in grado di venderlo.
In secondo luogo, ritengo che la Cina – il principale acquirente di petrolio iraniano al mondo – non sia disposta ad accettare le ultime sanzioni statunitensi imposte a Teheran. “La cooperazione della Cina con l’Iran è aperta, trasparente, ragionevole e legittima e dovrebbe essere rispettata” ha infatti dichiarato il portavoce del Ministro degli Esteri, Geng Shuang, il 21 aprile 2019. In base alle statistiche pubblicate dal Chinese General Administration of Customs, ad aprile 2019, il paese “di mezzo” ha importato il record di 10.640.000 b/g. Nel contempo, l’import cinese di greggio iraniano è schizzato a 800.000 b/g, il livello più alto dall’agosto 2018. Il Presidente Trump è disposto a far naufragare le possibilità di un’intesa commerciale con la Cina? Secondo Il Sole 24 Ore, il 7 e l’8 maggio 2019, il governo cinese avrebbe inviato un chiaro messaggio alla Casa Bianca, astenendosi dal partecipare all’asta dei titoli di Stato. Così facendo, il rendimento del T-bond USA è salito al 2,479% rispetto al 2,46% previsto (il massimo incremento dall’agosto 2016).
A prescindere dall’effettivo peso derivante da quest’ultimo aspetto, temo che il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, abbia fatto molte pressioni sul Segretario di Stato USA, Mike Pompeo, sia in merito alla fine delle deroghe alle sanzioni, sia rispetto al tema della sovranità delle Alture del Golan nel corso del loro ultimo incontro tenutosi il 20 marzo 2019 a Gerusalemme. Tuttavia, gli interessi israeliani e statunitensi non sempre coincidono. Trump deve infatti tenere conto che un attacco israeliano e saudita all’Iran significherebbe anche un’aggressione alla cosiddetta Via della Seta cinese, di cui l’Iran (come la Siria) è uno snodo essenziale.

Quali paesi sostengono il generale Haftar in Libia e per quali motivi? Quali invece supportano il governo a Tripoli?
Ufficialmente, il governo di unità nazionale di Tripoli guidato dal Primo Ministro Fayez al Serraj è l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale (ONU). Nei fatti, esso controlla solamente una parte del nord ovest del paese. Essendo espressione della Fratellanza Musulmana, il governo Serraj è anzitutto sostenuto dal Qatar e dalla Turchia, ma anche dall’Italia. L’Egitto, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e la Francia invece appoggiano il maresciallo Khalifa Haftar, il quale controlla gran parte del paese soprattutto, le regioni della Cirenaica e il Fezzan.
In base alle attuali risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tutti i proventi energetici vengono depositati presso i conti controllati dalla Banca Centrale della Libia mentre la National Oil Corporation (Noc) è l’unica entità autorizzata ad esportare greggio. Queste due istituzioni sarebbero sotto il controllo dal governo centrale di Tripoli e – in teoria – Haftar non potrebbe vendere petrolio e gas naturale all’estero.
Il motivo per il quale la Francia – nei fatti – si oppone alla linea dettata dall’ONU e segue una propria agenda in politica estera in esplicita contrapposizione anche con quanto indicato dall’UE per bocca della Commissario Federica Mogherini, ha a che fare con l’uranio più che con il petrolio. Certamente, Francia e Italia, e le rispettive major Total ed ENI, competono pure per lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas naturale – oramai, sempre più sotto il controllo di Haftar (anche se le estrazioni di ENI sono nettamente superiori rispetto a quelle di Total) – ma il vero obiettivo dell’Eliseo è quello di giungere a controllare il sud della Libia (il Fezzan per l’appunto), confinante con una serie di paesi francofoni ricchi di uranio. Tra questi, il Niger, i cui giacimenti riforniscono la società francese Areva (oggi, Orano) operante nel campo dell’energia nucleare di cui la Francia fa un ampio uso.
La Federazione Russa, che al tempo non gradì l’intervento militare della NATO avvenuto poco prima che Putin riprendesse il proprio posto di Presidente momentaneamente occupato dal distratto Medvedev, sembra stia parteggiando per Haftar. In realtà, Mosca si è più volte offerta come mediatrice del conflitto. Tenuto conto che Trump è sempre più disinteressato dall’essere direttamente coinvolto nelle vicende libiche – ma ben consapevole dei suoi effetti sulla tenuta politica dell’UE (basti pensare allo scontro politico in seno all’Unione riguardante il tema della redistribuzione dei migranti provenienti da Libia e Siria) – il mio timore è che l’Italia non abbia colto la palla al balzo.

Quanto è importante il petrolio libico per l’economia italiana e quanto ha inciso la guerra del 2011 contro la Libia con la conseguente caduta di Gheddafi?
Secondo i dati forniti dall’Unione Petrolifera, nel corso degli ultimi anni, le importazioni di petrolio dalla Libia sono diminuite.
Durante l’era di Muammar Gheddafi (ucciso il 20 ottobre 2011), il paese produceva 1.600.000 b/g in base alle quote designate al tempo dall’OPEC. Con la guerra, l’output libico è crollato sino a 400.000 b/g ed ancora oggi esso fatica a mantenere una produzione costante attorno agli 800.000/1.000.000 b/g. Nel 2011, cioè nel pieno del conflitto, l’Italia importò dalla Libia 4,6 mt (milioni di tonnellate) pari al 6,8% del proprio fabbisogno totale. Nel 2012, le importazioni riaumentarono fino a 14,4 mt (23%), per poi calare a 8 mt nel 2013 (15,3%). Nel 2018, l’ultimo dato a nostra disposizione, l’import petrolifero dalla Libia è sceso a 6,3 mt (10,1%).
A differenza del gas naturale, il petrolio può essere trasportato in maniera relativamente più semplice e presenta un maggior numero di fornitori (anche se bisogna sempre tenere conto delle differenti qualità di greggio e del tipo di raffineria che può lavorarlo). Questo vuol dire che l’Italia – intesa come sistema paese – può sostituire l’import di greggio libico – poco ricco di zolfo e quindi di alta qualità – con uno simile (ad esempio, il petrolio proveniente dall’Azerbaijan attualmente, il principale fornitore dello Stivale).
Per quanto attiene ENI, il discorso è leggermente diverso. La major italiana è infatti presente in Libia dal 1959 dove opera nell’oil & gas (importiamo gas naturale attraverso il gasdotto Greenstream). La produzione libica dell’ENI vale circa il 15% della produzione del gruppo italiano. Circa un terzo del gas naturale prodotto dal gruppo è libico. Nonostante il lavoro sul campo di ENI sia solido e ben riconosciuto è evidente che se il controllo politico del paese passerà sotto le mani di Haftar anche gli interessi di ENI potrebbero essere messi a rischio.
In conclusione, credo che il problema maggiore per l’Italia sia la crisi migratoria innescatasi con la guerra in Libia (come in Siria, le cui conseguenze pesano anzitutto sulla piccola Grecia). Quel conflitto fu anzitutto voluto dalla Francia e dal Regno Unito, ma anche dall’allora Presidente della Repubblica italiano – Giorgio Napolitano (oggi, sappiamo che l’aeronautica italiana partecipò attivamente ai raid sulla Libia) – mentre il governo di allora presieduto da Silvio Berlusconi non ebbe la forza di opporsi a una scelta che senza dubbio alcuno definirei sciagurata (oltre che anticostituzionale).
A prescindere dall’esito elettorale delle prossime elezioni europee, l’odierna vittoria politica e culturale della Lega di Matteo Salvini è soprattutto figlia di quelle scelte e di quegli eventi.
FONTE: https://mysterionweb.wordpress.com/2019/07/02/i-retroscena-delle-grandi-manovre-geopolitiche-ed-economiche-nello-scacchiere-internazionale/

VISTO ANCHE SU https://www.sinistrainrete.info/estero/15430-demostenes-floros-i-retroscena-delle-grandi-manovre-geopolitiche-ed-economiche-nello-scacchiere-internazionale.html
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Demostenes Floros, an economic and geopolitical analyst, is a professor of the Masters’ in International Relations Italy – Russia, at the University of Bologna Alma Mater and of the Master in Energy Management at the Polytechnic of Milan, as well as being the head and professor of the eighth course in Geopolitics, established at the Open University of Imola (Bologna). He collaborates with Abo(www.abo.net, edited by ENI), WE-World Energy (ENI three monthly review),www.limesonline, and the geopolitical review Limes. Among hi collaborations:Energy International Risk Assessment (EIRA), Blue Fuel, www.oilprice.com.
Demostenes Floros, analista geopolitico ed economico, è docente presso il Master in Relazioni Internazionali Italia-Russia, dell’Università di Bologna Alma Mater e del Master in Energy Management del Politecnico di Milano, oltre ad essere responsabile e docente dell’ottavo corso di Geopolitica istituito presso l’Università Aperta di Imola (Bologna). Collabora con Abo (www.abo.net) e la rivista WE-World Energy editi da ENI e con il sito www.limesonline.com e la rivista di geopoliticaLimes. Tra le sue collaborazioni: Energy International Risk Assessment EIRA, Blue Fuel,www.oilprice.com.


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