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Lo sguardo attraverso lo specchio del Fliegende Holländer

Lo sguardo attraverso lo Specchio del Fliegende Holländer
Fermata Spettacolo

Si dilata e si deforma, la scena del Teatro Petruzzelli, qui a Bari, per la rappresentazione del Fliegende Holländer, all’avvio della Stagione: enorme specchio, inclinato in modo adeguato e accorto, rinvia a noi che sediamo in platea ciò che avviene sulla scena, ovviamente e scientemente fornendocene una difforme prospettiva, come se potessimo guardarla, la vicenda e il suo drammatico dipanarsi, oltre che con diretto sguardo, pure, e contemporaneamente, a volo d’angelo, o di spettro, che dall’alto possa, ove mai interessato alle incomprensibili vicende umane, giudicare e valutare, commuoversi e pregare, forse, qualora ne sentisse desiderio o ghiribizzo. Non solo: provvede il regista – il franco-greco Yannis Kokkos, in questa produzione che, or son diciott’anni, al Comunale di Bologna, stupì tutti per l’audacia e la forza di talune soluzioni sceniche, da sempre rovello di scenografi e registi alle prese con le dettagliatissime ma molto spesso chimeriche didascalie di Wagner, e perciò più volte negli anni riproposto – di fatto a raddoppiar la scena, aprendo, quando necessario, un’enorme botola posta sul palcoscenico: ciò che è sotto l’assito ovviamente non risulta visibile dalla platea, ma lo diventa quando venga riflesso, per l’appunto, nel gigantesco specchio, sembrando apparir così ciò che vi è nascosto, quasi sospeso a mezz’aria, come librato nel tempestoso cielo di Norvegia.

Ciò che si trova sotto l’assito del palcoscenico, ciò che viene rivelato dallo scorrer della botola, ciò che appare nel “cielo” è, com’è ovvio, il vascello dell’Olandese, la nave maledetta col suo capitano per aver giurato in Ewigkeit lift ih nicht ab! – non desister in eterno, con notevole effetto di grande potenza visionaria. Se poi si aggiunge che il regista ricorre spesso anche a proiezioni con spuma marina, cieli tempestosi o assolati, sfondi che di volta in volta accompagnano marinai in tempesta, quiete ragazze che filano candide tele, feste notturne al lume di lanterne, la suggestione è completa e di perfetta, penetrante malìa: qual è la realtà “vera”, lo specchio nasconde o rivela, vien da chiedersi, quali sono gli uomini in carne e sangue, quali invece i fantasmi che si agitano, non sono forse intersecati gli uni negli altri, non attraversano gli spettri ansiosi e irrisolti le nostra ansie e le nostre incertezze di vivi? “Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia”: Paolo così indicava ai Corinzi l’esistenza di una realtà ulteriore rispetto alle apparenze, non meno “reale” perché invisibile: lo specchio è, da sempre, limite e insieme simbolo di diversa patria, di alieno credere e pensare.

E dunque nel bianco assoluto della scena essenziale – a volta a volta elemento che rinvia ai ghiacci eterni, al gelo aspro e tormentoso del cuore dell’Olandese, all’algida innocente sensualità adolescente di Senta, probabilmente a tutto questo insieme – la vicenda dei personaggi umani interseca, attraversandola inconsapevole, quella degli spettri, che dei primi sono complemento, smania, sfinimento. E noi li vediamo – il regista ce li mostra – alternativamente, sul palco e sullo specchio, a seconda dell’incidenza della luce e delle proiezioni, ma in effetti intuiamo la loro (co)esistenza, uniti ma inesorabilmente divisi, troppo distanti pur essendo vicinissimi, come nella scena della festa dei vivi e dei morti del terz’atto, gli uni accanto agli altri, gli uni anzi profezia del destino inesorabile degli altri, tuttavia rigidamente separati: il regista suggerisce questa insopprimibile cesura, opprimente segregazione di anime inquiete, assegnando un colore scuro degli abiti ai vivi, a coloro che vestono – ancora – carne e sangue sulle anime nude, un color latteo, invece – somiglia il gelo dei ghiacci al gelo della non vita – ai marinai che quella carne più non l’hanno, morti viventi in attesa del definitivo perdersi nel nulla.

Solo l’Olandese, che necessita farsi passare per uno di loro – per uno di noi – assume pur egli, ogni settimo anno, il gravame della carne, l’abito nero della vita. Il regista gioca molto su questa contrapposizione e alternanza del bianco funebre e del nero vitale per tradurre nello spirito le indicazioni dell’Autore a chi si cimenti con quest’opera: a ben riflettere, vien da chiedersi, cos’è da preferire, la morte bianca che redime o la vita nera che imborghesisce, entro i confini e i limiti dell’angusto, venale, egoista orizzonte di Daland e di Mary? Non di Eric – pur così buono e onesto e appassionato – è innamorata Senta, non della vita che canta la carne e il sangue, non dell’esistenza due-cuori-e-una-capanna ma dell’Amore folle e sconsiderato e incontaminato e disperato e puro; per questo si dannerà.

Ma dannandosi si salverà, salverà l’Olandese e salverà tutti noi, l’intera umanità, riscattandola dalle convenzioni, dalle umiliazioni, dalle miserie in cui spesso costringiamo la vita. Redenzione che trova segno e significato nel gesto finale di Senta, che esce dal bozzolo nero dell’abito della vita per mettere a nudo la veste bianca della (ri)nascita alla morte e all’amore: indicibile profumo di libertà assoluta, che sa d’Amore e Morte, inscindibile immancabile binomio romantico che trionfa qui, in questa che è certamente la più “romantica” e “giovane” delle opere del Maestro.

Ma che tuttavia non è certo, per questo, priva di asperità, difficoltà, esigenze: al successo della serata ha certamente contribuito in misura determinante la precisione, l’autorevolezza e, insieme, lo slancio e la passione della direzione del giovane Direttore Stabile del Massimo barese, Giampaolo Bisanti: la cura nel controllo delle dinamiche orchestrali, l’esattezza germanica dei ritmi, la gestione perfetta dei rapporti tra buca e palcoscenico ha fatto sì che la musica wagneriana abbia potuto esplicitare intatto il suo fascino; così l’Erlösungs-Melodie, il tema della redenzione di Senta che chiude prima il Preludio e poi l’intera opera, riesce, grazie all’ottima adeguatezza stilistica, a rinviare, attraverso quel gioco di trasmutazioni suggestive e seducenti così tipico dell’Autore, all’altro leitmotiv wagneriano della redenzione, quello di Brunhild che, fulgido e splendente, chiude il Götterdämmerung e il Ring.

Assonanze, attinenze, suggestioni che alimentano una chiave di lettura persuasiva e pervasiva fatta propria anche dall’Orchestra, che ha saputo rispondere alla sfida con grande professionalità e al Coro, diretto da Fabrizio Cassi, che ha offerto una prestazione apodittica e limpidamente consapevole delle proprie capacità e possibilità.

Il Daland di Yorck Felix Speer, efficace nella resa del personaggio, sottolineandone l’avidità e la grettezza, soffre nella prima parte, soverchiato spesso dal Coro dei marinai per poi crescere progressivamente nella seconda: ottimo il suo Mein Kind…Mögst du con Senta. Brenden Gunnell si conferma uno dei migliori possibili nel ruolo, in virtù della voce sua incline alla liricità ma potente, tuttavia, e virile, il che gli consente di delineare un Erik chiaroscurato e raccolto, poco incline a certe svenevolezze che, a torto, spesso caratterizzano il personaggio. Tómas Tómasson nel ruolo eponimo ha la sua carta vincente nel fraseggio e nella recitazione, peccando tuttavia talvolta nell’acuto: in ogni caso un’ottima performance.

La Senta di Maida Hundeling, per chiudere, è pressoché perfetta – ed anche il pubblico l’ha premiata, alla fine, con una vera e propria ovazione – che si avvale di un fraseggio di grande spessore drammatico, unito ad una intonazione mai pregiudicata ed una voce potente da vero soprano drammatico: se a questo si unisce la statura e la prestanza fisica se ne ricava una forte impressione, come sempre dovrebbe essere per una autentica eroina wagneriana.

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