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Retorica e neologismo, ombra e luce di Bohème

Retorica e neologismo, ombra e luce di Bohème
Fermata Spettacolo

“La bohème ha un parlare suo speciale, un gergo… Il suo vocabolario è l’inferno della retorica e il paradiso del neologismo…”. Così Henry Mürger, nella prefazione alle Scènes de la vie de bohème che Giacosa e Illica vollero come prefazione pure al libretto loro: vale senza dubbio, dunque, come intento programmatico, esteso in tutta evidenza pure al compositore, anzi, probabilmente “l’inferno della retorica e il paradiso del neologismo” è da intendersi soprattutto e in primo luogo per la musica, che Puccini volle adatta a “trattare il quotidiano”, rispecchiando la vita di tutti i giorni, ma, al tempo stesso, capace di metaforicamente comunicare l’idea del tempus fugit, della giovinezza che passa: ottenne questo rifuggendo la retorica dell’afflato romantico, guardando anche ai momenti più poetici con una punta d’ironico disincanto, e gli esempi in partitura sarebbero tantissimi. Tutto questo, in definitiva, per dire che se c’è una cosa da cui occorre guardarsi interpretando Bohème è proprio la facile retorica romantica della lacrima sempre pronta sul ciglio: l’emozione, se c’è – e noi pensiamo che ci sia – deve scaturire proprio dal nudo accostamento tra vita e aspettative, riflessione sulle piccole cose che compongono la quotidianità, il freddo, la fame, un bicchiere di vino, un fiore finto, uno scherzo tra amici, un vivo desiderio di luce e di calore, reale prima ancora che metaforico, che fa desiderare il primo bacio dell’aprile, figura d’una primavera troppo breve.

Riesce, questo particolare allestimento di Bohéme in scena in questi giorni qui al Teatro San Carlo di Napoli, a sfuggire “l’inferno della retorica” e ad entrare nel “paradiso del neologismo”? Sì e no, come vedremo, luce ed ombra si alternano, per quanto riguarda la regia, affidata a Mario Pontiggia, le scene e i costumi, di Francesco Zito, le luci, di Bruno Ciulli; l’allestimento, del 2008, andato già in scena al Teatro Massimo di Palermo e al Maggio Musicale Fiorentino, è decisamente tradizionale e sceglie una fedeltà al libretto piuttosto stretta, con alcune salutari libertà.

L’azione è sicuramente spostata piuttosto avanti, direi grossomodo a cavallo del secolo, negli anni in cui fu composta l’opera: l’architettura della tettoia a conchiglia del Caffè Momus al centro della scena, dagli eleganti globi luminosi, si richiama certamente allo jugendstil, i grandi boulevard parigini che si intravedono dalla terrazza del quarto quadro ci portano al grande sventramento della città regolamentato dal Barone Haussmann e al Secondo Impero, i bei costumi fin de siècle, infine, vanno dritti dritti a quel particolare periodo che va sotto il nome di belle époque e che tanto piace, devo dire, a registi e scenografi, come ambientazione dei loro lavori, probabilmente perché permette loro, attraverso quello stile, di trasmetterci l’ideale stesso d’una rimpianta bellezza, e, in uno con essa, pure la malinconica consapevolezza della fine, il fallimento dell’illusione che quella bellezza abbia il miracoloso potere si salvare, alla fine, il mondo.

Così, la casa di Rodolfo è né più né meno quella che t’aspetti, il cavalletto col Passaggio del Mar Rosso, la stufa che vive in ozio, il tavolo pieno di libri, fogli e riviste, la grande vetrata opaca sul fondo, tutto è al posto suo, tutto come descritto e immaginato: ciò che manca, tuttavia, in questo primo quadro, è la voglia di vivere che quei giovani non riescono a trasmetterti, né lo stupore improvviso e inaspettato che la scoperta dell’amore dovrebbe darti; a te che sei seduto in platea tutto risulta, alla fine, un po’ freddino. Nè, francamente, va meglio col secondo quadro: al di là della bella ed elegantissima ambientazione, ricordo del Ballo al Moulin De La Galette, il Quartiere Latino dovrebbe farti conoscere la vera protagonista dell’opera, che non è Lucia, come potresti credere, ma Parigi, che con Puccini assume veste sonora, non più semplice ambientazione, ma squarcio di realtà che prima non era considerato degno d’arte.

Puccini ci riesce attraverso un eccezionale linguaggio musicale, che per tanti versi è stato avvicinato alla tecnica cinematografica, in cui tutte e ognuna delle componenti del gran quadro, le signorine, le mamme, i bambini, la banda, i venditori, i borghesi, i camerieri, i protagonisti della storia, tutti fanno e dicono qualcosa contemporaneamente a tutti gli altri ma ognuno ha la sua propria perfetta caratterizzazione, il suo “posto nel mondo”, come qualcuno direbbe.

È piuttosto complesso, per un regista teatrale, mettere in scena tutto questo, ma è essenziale nell’allestimento di Bohéme, altrimenti si rischia, come ieri sera, l’effetto recita scolastica, con le masse tutte allineate di fronte alla platea, i bambini di qua, le mamme di là, i personaggi che di volta in volta avanzano sul proscenio per loro siparietto, il tutto aggravato dalle signorine che innalzano grandi scritte Momus a tempo di musica, Marcello e Musetta che ballano il tango col casqué, tutti i protagonisti che, sulle note della banda, si muovono come sulla passerella dell’avanspettacolo, nel tripudio del pubblico che li applaude, in palcoscenico e in platea.

Va decisamente meglio, però, occorre dirlo, col terzo quadro, magnifico e terribile: qui, come in un dipinto di Monet, buia, opaca e sfumata dal dolore e dal peso insopportabile della vita – non s’era mai visto prima, in un’opera lirica, amanti lasciarsi senza un perché, senza un antagonista incattivito, un padre contrariato, una famiglia nemica, sintomo della moderna malattia – la città sa proteggere e circondare chiudendo nel gelo della notte e dell’ovattato silenzio della neve gli innamorati ormai decisi a lasciarsi, sia quelli allegri e lievi sia quelli gelosi e corrucciati.

Qui, alla Barrière d’Enfer, miserrimo luogo di daziari e amorazzi clandestini, il regista riesce finalmente a trovare la misura vera della vicenda dei poveri giovani, lavorando per sottrazione, non cedendo come prima alla retorica tentazione di aggiungere e spiegare: basta accompagnare con lo sguardo Rodolfo e Mimì che s’avviano di nuovo a casa, voltando le spalle al pubblico, ad attendere la fine dell’inverno e l’aprile che si porterà via vita, amore, giovinezza. E arriva, alla fine, quell’aprile dell’ultimo quadro: viene da chiedersi, in verità, guardando i bei vestiti color crema dei protagonisti e la trasfigurata tana squallida di Rodolfo, che per effetto della luce del mattino primaverile assume i toni festosi d’un di quei quadri di Corcos, che ritraggono una pensosa ed elegante gioventù in magnifiche ville, quanto questi protagonisti abbiano veramente conosciuto la miseria che non permette loro d’avere non caffè, non vino, nulla!

Ma è solo un attimo: Mimì che si congeda dalla vita e i suoi amici dalla giovinezza in un tripudio di sole e di sboccio di fiori riesce a tradurre veramente ottimamente, per forte contrasto, sul piano visivo, quanto è in partitura, in questo vero capolavoro dove nessuna nota è fuori misura.

Sul piano musicale Stefano Ranzani guida l’ottima Orchestra del Teatro San Carlo senza voli pindarici ma interpretando con cura, partecipazione e precisione la partitura, anche se a volte sembra preso da gran fretta, che mette pure a repentaglio, sovente – ma era la prova generale e certe imperfezioni vanno messe in conto – il sincrono tra buca e palco, massime con il Coro, sempre attento ma che incappa in qualche incolpevole sfasatura; ottimo il Coro di Voci Bianche. Nel secondo cast, che ha cantato in prova generale, Alessio Verna ha reso bene uno Schaunard cinico e generoso al tempo stesso, ottimo lo spessore vocale e la cifra interpretativa; interessante la scura voce del Colline di Laurence Meikle, che raccoglie i suoi applausi personali con Vecchia zimarra; di buon livello la performance del soprano Gladys Rossi che ci restituisce una Musetta dalla linea vocale espressiva e dall’ottima presenza scenica, che sa trovare la sua giusta misura soprattutto nel terzo quadro; il giovane Vincenzo Nizzardo è un Marcello dalla voce bella e generosa, convincente sul piano scenico; Massimiliano Pisapia è un di quei tenori che qualcuno definirebbe “all’italiana”, dalla voce voluminosa e squillante, anche naturalmente musicale, che però spesso deborda un po’, tiene troppo – a volte veramente in modo insopportabile – gli acuti, e sovente finisce in un vibrato non piacevole; Elena Mosuc è il gran soprano di sempre, la cui voce arriva nitida e piena in sala, risolvendo ogni tensione in trasparenze e velature, con la sicurezza che dà un’impronta vocale omogenea e solida, costruendo, anche scenicamente, una Mimì che, pure nei momenti d’abbandono o di stanchezza, riesce ad essere forte e incisiva senza indulgere a facili svenevolezze: il pubblico, numerosissimo, la premia con lunghi applausi.

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