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Giulio Cesare, botole, commedia di errori e finzioni teatrali

Giulio Cesare, botole, commedia di errori e finzioni teatrali
Fermata Spettacolo

È cosa fatta. Quando il metaforico sipario si apre – il tonfo di quella terra che ricopre la gran buca centrale (è forse lì, Cesare, mentre Antonio spala e spala e spala la terra?), ritmato come cuore pulsante, come ossessione vivente, come nuda sinfonia onirica, sfasato rispetto ai tempi e ai ritmi dell’uomo come può esserlo l’indifferente ciclo della storia e dell’universo – i dubbi sono alle spalle, i ripensamenti impossibili, le tormentose angosce della vigilia evaporate come le brume nebbiose di quel mattino al sole ancora invernale, gli ignorati e dimentichi indovini ancora e ancora inutilmente continueranno a insinuare nei cuori la sottile angoscia delle idi di marzo. Eppure è ancora buio sulla terra. Cesare è morto. E la scelta di affidare le “sue” frasi, le “sue” considerazioni, i “suoi” pensieri ora all’uno ora all’altro dei congiurati – i ricordi e gli incubi loro, che escon fuori dalla pelle come farfalle dalle crisalidi incartapecorite e morte – è quantomai eloquente circa il divenire di Cesare e del suo destino: si sminuzza, l’eredità di Cesare, il Corpo di Cesare – il Corpo di Roma – Corpo e Sangue che (ri)vive nei gesti dei suoi figli assassini in pari misura che degli altri suoi figli legittimi(?) eredi, retaggio di dolore e gloria immolato per Roma, in nome di Roma, per il bene di Roma perché “voleva farsi re”, meglio uccidere il serpente quando è ancora dentro l’uovo, prima che spanda il suo veleno. Cesare è morto e tu, ancora incerto – come sempre posto di fronte alle scelte dell’insanata e insanabile giustizia della politica – se chiamare buoni i cattivi e cattivi i buoni, seduto stai nei buio: per primo guardi Bruto, che emerge dalla sua buca (è un viaggio agli inferi, t’immagini, e son quelle già le tombe degli eroi che combatterono per ingiusta causa, e ti sembra di sentir padre Dante che, poco da te discosto, ti descrive l’abitante di questo luogo sospeso: dalla cintola in sù tutto il vedrai).

In questa rivisitazione/ricombinazione del Giulio Cesare di Shakespeare, Fabrizio Sinisi s’immagina un mondo già privo del protagonista, ma pure di molti comprimari: restano, ad abitare questo Giulio Cesare sospeso nella gran notte della Storia, solo Bruto (Isacco Venturini), Cassio (Daniele Russo) e Casca (Nicola Ciaffoni), che vengono sistemati dal regista Andrea De Rosa ciascuno nelle tre buche piccole di cui è provvisto il gran palcoscenico che qui al Bellini di Napoli, per la rassegna dedicata al Teatro Shakespeariano, il Glob(e) al Shakespeare, mentre nella grande, al centro, un uomo vestito di nero, che poi si rivelerà essere Antonio (Rosario Tedesco), inesausto spala una gran massa di terra, almeno per larga parte della pièce, all’interno della buca, verso quel mondo sotterraneo che probabilmente è il vero protagonista della Storia, di questa storia. Estremamente caratterizzati, i tre cospiratori non sono tutti uguali: Bruto è l’ansia, l’angoscia che corrode, l’intellettuale che sente gravare su di sé il dubbio e il giudizio della Storia, perché se Cesare andava fermato, non è detto che con la sua uccisione il male sia vinto: era Cesare che generava il male, la tirannia, oppure il contrario, Cesare altro non era che espressione del momento storico, della particolare esigenza e condizione che, in qualche modo, lo “usava”, incarnandosi in quel particolare Corpo, ma pronta a reincarnarsi in un altro, purché disposto, in cambio del potere, a lasciarsi usare? Casca è il topo che abita i bassifondi della Storia, che trova nell’eliminazione del potente di turno l’ebrezza dell’unico momento di problematica gloria della vita sua, senza porsi altro problema che la paura di possibili conseguenze personali al suo gesto, una volta tanto, irreparabile. Poi c’è Cassio. Cassio l’anima nera. Cassio il rivoluzionario. Cassio dalle parole d’ordine, gli slogan demagogici che gareggiano con quelli del nemico, Cassio il puro, segno e visibile sacramento dei tanti incorruttibili uomini onesti della storia.

Infine Antonio, che fa presto a reinterpretare il potere, nella rivisitazione della sua celebre orazione, obliqua, ambigua, come gli “uomini d’onore” cui si riferisce: non fa in tempo a finirla che già si ritrova nei panni del possibile tiranno, in una condizione di perfetta simbiosi con il dominio e la potenza. Sappiamo tutti come andrà a finire, ma intanto l’appuntamento è a Filippi, nella battaglia che d’un tratto diventa archetipo di tutte le guerre della storia, dei soldati che marciano convinti innestando il microfono sull’asta come la baionetta sul fucile, battaglia di parole, battaglia che – pure – si svolge in un teatro (non dimenticarlo), è messa in scena, è, più modernamente, televisione, distruzione/distrazione di massa, e che nel gran rumore dei suoni e della parole finisce nel frantumarsi delle speranze di Bruto, nell’agonia dell’odio di Casca, nel morire dei progetti di Cassio. Il sottosuolo, sempre attraverso le tre botole del palcoscenico, è in qualche modo protagonista pure del secondo “pezzo” teatrale, messo in scena a seguire il Giulio Cesare – ricordiamo come, nella particolare formula adottata dalla rassegna Glob(e) al Shakespeare, siano ogni sera abbinate una commedia e una tragedia – Una commedia di errori, nella riscrittura di Marina Dammacco, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella per Punta Corsara.

Naturalmente è molto diversa l’atmosfera, tuttavia, nella ricostruzione della Little Italy degli anni venti, in cui viene riambientata la vicenda, il mondo infero delle fogne, abitato da demoni senza volto, risulta alla fine e con buona approssimazione molto vicino a quello degli italiani che in quegli anni arrivavano a New York, magari senza conoscere una parola d’inglese. Se la presenza in scena di una cinquantina di casse di rum è perfino ovvio rinvio al proibizionismo di quegli anni, meno scontato è l’uso sapiente che se ne fa in scena: assemblate in vario modo, le casse diventano di volta in volta skyline dei grattacieli della Grande Mela, casa, cancello, porta, fortino, scala, tutto quello di cui si può aver bisogno sulla scena per questa classica commedia degli equivoci in cui, come in teatro, tutto è finto ma nulla è falso. Come i costumi, che ci riportano al mondo dei gangster e delle pupe, dei contrabbandieri e dei poliziotti; come le belle musiche originali di Giovanni Block che, insieme a qualche refrain, rimanda a famosi film di genere musicati da Morricone e sapientemente evoca ricordi sopiti e creduti dimenticati; come l’uso disinvolto delle gags della commedia dell’arte accanto a memorie remote e illustri di Plauto, in un gioco di continua confusione di persona, cambio d’identità, turbinio continuo d’entrata e d’uscita dei personaggi, in cui le botole svolgono la stessa funzione delle porte di un vaudeville di Feydeau, nella fluidità continua dell’irresistibile leggerezza della finzione teatrale.

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