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Beyond Oceania: esperimento di scrittura creativa

Diario di Bordo del Capitano:

3 giugno 1769

”Questo giorno si è rivelato favorevole al nostro scopo, come volevamo, non una nube è stata vista in tutto il giorno e l’aria era perfettamente limpida, così abbiamo avuto tutti i vantaggi che potevamo desiderare…”

Sedeva in riva al mare, il ‘tatau’ fresco gli bruciava la spalla e la testa era pesante a causa del gin del capitano. Ne Aveva trangugiato un bel po’ per stordirsi dal dolore, mentre la punta d’osso, intrisa di pigmento, gli penetrava le carni. Gli indigeni andavano fieri dei loro tatuaggi. Erano segno di emancipazione, perseveranza e risoluzione nell’affrontare le sofferenze.
Aveva accettato di farsi marcare la pelle candida, poiché nessun uomo maturo e rispettabile nel villaggio appariva sprovvisto di ornamenti indelebili. Ce ne erano di ogni tipo: navigli, denti di squali, mezzelune, cerchi, punte di lance, animali stilizzati, linee frastagliate come onde del mare. Ogni colpo appuntito affondava nei tessuti un colore denso fatto di olio bruciato, che si mescolava al sangue vivo. Una giovinetta reggeva il colore contenuto in una mezza noce di cocco, e gli sorrideva, mostrando denti che parevano perle. Tra il dolore e i fumi dell’alcol, ricordava solo lo sguardo curioso e i capelli lucidi di monoi che le lambivano i piccoli seni, mentre un suono ritmato e lontano gli giungeva all’orecchio.
Ad ondate, il dolore gli faceva pulsare le tempie, mentre a denti stretti cercava di ricacciarlo indietro.
Gli sembrò allora di essere finito nel caldo soffocante di un interno signorile, stordito da odori diversi: le candele di cera colante, la brace nella bocca scura del camino di marmo lavorato, lo cherry nei bicchieri di vetro bianco e blu, le carte da gioco un po’ stantie, con gli angoli consumati ed il contorno scuro, per le troppe partire di whist.
Lo sguardo si spostava, febbricitante, dalle figure sbiadite delle carte che teneva in mano al collo bianco della donna che era sua amante. La osservava conversare, discreta e gentile, con alcuni amici, all’angolo della sala. S. tendeva un foglio srotolato tra le mani, e le accennava chissà quali segreti del mondo naturale. Lei chinava il capo per guardare meglio, facendo cenno di indicare qualcosa con la punta del ventaglio richiuso. La ricordava così, esile e delicata, una lacrima che le solcava silenziosamente la guancia, mentre si salutavano.
Sentiva ancora il sale di quella lacrima, ma il porto di Plymouth era lontano, lontanissimo.
Ora c’erano sorrisi e sguardi diversi, quasi divertiti, di nativi vestiti di tatuaggi e unti di olio rancido, che gli indicavano l’opera appena conclusa: un ‘amoco’ nerastro, intricato e rappreso al suo sangue.
Dopo quella singolare iniziazione, aveva raccattato una bottiglia tra le pacche di rispetto bonario di alcuni uomini di equipaggio che gli offrivano la pipa ed il tabacco. Non aveva voglia di fumare, aveva raggiunto barcollante la spiaggia e si era addormentato, sfinito dalla prova e assalito dalla nostalgia.

Gli risuonavano nella testa queste parole:
“Il mio tatuaggio è una gemma permanente, che porterò con me nella mia tomba.”

La mostra “Oceania”, in collaborazione con il British Museum, il Musée du quai Branly-Jacques Chirac di Parigi e il Museum of Archaeology and Anthropology di Cambridge, è alla Royal Academy di Londra fino al 10 dicembre. 


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