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Ingmar Bergman: le due facce della stessa Persona

«Tu vuoi essere, non sembrare di essere […] perché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità… A nessuno importa sapere se le tue reazioni siano vere o false. Solo a teatro il problema si rivela importante e forse neanche lì […]
Devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo…»
(Da Persona di Ingmar Bergman)

Due volti di donne molto somiglianti si avvicendano su uno schermo per poi sovrapporsi fino a che i loro contorni sfumati si confondono tanto da non poterli distinguere. 

Elisabet è un’attrice volontariamente votata al mutismo perché stanca di recitare sul palcoscenico della vita. Alma è l’infermiera che si occupa di lei, recita la sua parte inconsapevolmente, interpreta una persona (l’etimologia latina rimanda alla maschera indossata dagli attori dell’epoca antica) relegando in un angolo la sua anima (Jung distingue tra anima, intesa come essenza e persona intesa come maschera sociale, e la seconda tende, il più delle volte, a far retrocedere nell’inconscio la prima). Un’asettica casa isolata dinanzi al mare, su una ventilata isola nordica, è il luogo fisico dell’isolamento terapeutico per l’inspiegabile mutismo di Elisabet, che si trasforma nel luogo psichico dell’incontro/scontro tra due persone che, forse, sono una sola…


Questo è Persona di Ingmar Bergman: film splendidamente complesso e volutamente ambiguo e, forse, per questo tremendamente affascinante; ambiguità che si esprime nella fusione dei volti – che si può ammirare visivamente nella scena madre del film- nel (con)fondersi corporeo che è anche un confluire della personalità di un personaggio in un altro. Elisabet ha deciso di non parlare perché non vuole mentire, perché il linguaggio stesso è menzogna, il prodotto di una mente che è chiamata così proprio perché mente, filtra i pensieri, relega nei sogni i nostri desideri più inconfessabili e meno accettabili; la mente tende ad assimilare profondamente insegnamenti, regole e convenzioni sociali, che vengono impartite sin dalla più tenera età e che stabiliscono l’ordine simbolico di ciò che è socialmente accettato, di ciò che si può e soprattutto non si può e non si deve fare e dire («Devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo…» si recita in un dialogo).
Il vorticoso mescolarsi di immagini, apparentemente insensate, nell’enigmatico prologo del film dà forma al groviglio dei ricordi, desideri e pensieri della nostra mente, e la struttura intera del film stesso tenta di rappresentare e ricalcare il funzionamento assolutamente irrazionale e illogico del sogno e dell’inconscio umano, attraverso salti temporali, ellissi, dissoluzione sempre crescente delle coordinate spazio-temporali.
Il doppio che alberga in ogni essere umano è il tema portante del film: le due donne sono l’immagine speculare l’una dell’altra, si specchiano l’una nel volto dell’altra con sguardo attonito, forse terrorizzato, perché nel momento topico della narrazione (che è così poco lineare da divenire un’anti-narrazione) giungono a fare i conti con quella parte di se stesse tenuta nascosta, con il loro altro da se che è dentro di loro ma che non volevano vedere ed a cui non permettevano di affiorare. Elisabet rappresenta la parte oscura – messa a tacere perché inesprimibile per la sua malvagità – alla quale dà voce Alma che assume su di se gradualmente la personalità di Elisabet.
Accade spesso che le opere d’arte si intreccino o rispecchino eventi della vita dei loro autori; così è anche per Bergman, la cui vita è quasi tutta trasfigurata nei suoi film: nel caso di Persona, le due protagoniste femminili sono, in qualche modo, lo sdoppiamento cinematografico della compresenza conflittuale, nella vita reale, tra il vero io e la maschera che il regista svedese racconta di aver iniziato ad indossare forse troppo presto:

«Quel che mi accadeva intorno assomigliava a una pellicola formata da spezzoni di film messi insieme a caso […] con sorpresa scoprii che i miei sensi registravano sì la realtà esterna, ma gli impulsi non raggiungevano mai i miei sentimenti. Questi vivevano in uno spazio chiuso, potevano essere messi in funzione a comando, mai però senza riflessione. La mia realtà era profondamente scissa […] vivevo sul ricordo dei sentimenti, sapevo piuttosto bene come riprodurre i sentimenti ma l’espressione spontanea non era mai tale, c’era sempre un microsecondo a separare il mio vissuto intuitivo e la sua espressione emotiva.» (Ingmar Bergman, Lanterna magica)

Le parole che possiamo leggere nell’autobiografia bergmaniana, un vero e proprio diario di autoanalisi, si riferiscono ad una nevrosi che il regista sperimenta in giovanissima età e che impiega quasi quarant’anni per combattere, e una vita intera è servita a cercare di fare i conti con un carattere fragile e difficile, formatosi sui traumi, mai superati, di un’infanzia segnata da un’educazione molto rigida. Non è un caso che Persona nasca in un periodo di forte crisi psichica: il più sperimentale dei film di Bergman non dà consolanti risposte, non cerca il senso ma gioca ripetutamente sull’ambiguità della realtà materiale così come della vita spirituale dell’uomo. In una delle scene finali Alma si sistema i capelli allo specchio, appare pensierosa mentre osserva la sua immagine riflessa, sembra che cerchi di ricordare qualcosa ma non sa bene cosa (forse ricerca anche la propria identità, l’autentico io andato perduto), ma sembra non riuscirci, prende la valigia e abbandona l’isola. Ma dov’è Elisabet? Sembra volatilizzata nel nulla… che sia stato tutto un sogno? Forse sì o forse no… ma non c’è più tempo, la pellicola smette di girare, il film si chiude e anche noi spettatori ci svegliamo dal nostro sogno ad occhi aperti.

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